Ted Lasso: una serie sul calcio che non ti spiega cos’è il fuorigioco

Non ci girerò molto intorno, Ted Lasso è una serie fantastica.

È fatta per persone che amano il calcio? Sì.

È fatta per persone che non amano il calcio? ASSOLUTAMENTE SÌ.

Pochi mesi fa, proprio mentre si svolgevano gli europei di calcio, mi sono ricordato la potenza di questo sport sia come disciplina che come arte. Urla, petardi, macchine in fiamme, sedie lanciate, cori, fumogeni, clacson… il calcio è una religione, i tifosi sono i credenti, le squadre? Divinità.

Ma cos’è che gli dona potenza?

 Il gioco in sé?  Non penso proprio.

Le persone che giocano e tutte le personalità che gli girano attorno?

Forse sì… anzi decisamente sì. Non a caso la serie inizia con un personaggio, Rebecca Welton (interpretata da una potentissima Hannah Waddingham), che ha il desiderio di distruggere dall’interno la squadra di calcio AFC Richmond, di cui lei è proprietaria. Anzi più che desiderio è un capriccio, una vendetta nei confronti del marito adultero da cui ha appena divorziato e a cui ha “strappato di mano” la sua squadra. Come distruggere nel modo più subdolo possibile una squadra di Premier League? Semplice, facendola allenare a un allenatore di football americano che non ha mai né giocato o visto una partita di calcio: Ted Lasso.

Sulla carta sembra un piano perfetto, ma Rebecca non sembra aver considerato una caratteristica fondamentale di Ted: la sua bontà. L’allenatore, interpretato da Jason Sudeikis, è un personaggio veramente atipico. Questa è infatti una di quelle rare storie in cui il protagonista è immobile. La storia e i personaggi cambiano, mutano in continuazione, orbitano intorno al protagonista essenzialmente piatto perché “perfetto”. Personaggi di questo tipo ben riusciti sono pochi, Captain America il più recente. Un personaggio così fermo che costringe tutto ciò che lo circonda a “piegarsi” a lui, che cambia la storia e non il contrario. Questo sembra essere il bonario allenatore fino a che la storia non prende una piega diversa…

La potenza di questa serie risiede infatti nei personaggi. Partono tutti come delle macchiette, delle caricature di uno sfaticato sketch del SNL per poi aprirsi. Alcuni acquistano profondità, altri ribaltano l’archetipo, il protagonista inizia a farsi cambiare da chi lo circonda, altri ancora rimangono solo delle macchiette (che fanno sempre comodo).

Ci si affeziona al variopinto cast (vario sia dal punto di vista del genere che dell’etnia): mi ha fatto grande piacere vedere per la prima volta in un ruolo comico Juno Temple (e se la cava alla grande), mentre la già citata Hannah Waddingham regala un ampissimo range di emozioni che le hanno fatto guadagnare un Emmy proprio per questo ruolo, Jason Sudeikis – inutile dirlo – è nel suo territorio, assieme a volti freschissimi che trasudano divertimento da tutti i pori. Questa moltitudine di personaggi si scontra essenzialmente su un ridondante confronto tra cultura americana e cultura anglosassone, un gioco che a lungo andare può stufare ma se fruito in lingua originale può arricchire e non poco da un punto di vista della lingua. Ogni attore parla con il proprio accento marcandolo con orgoglio.

Tutto ovviamente inserito in un contesto calcistico, che però rimane in disparte. Non si vede mai una partita intera, solo brevissimi istanti necessari per lo sviluppo dei personaggi (altro che Holly e Benji), tanti invece i momenti in strada e al pub con i tifosi.

Però (eh, sì, è arrivata l’ora dei però) la regia è completamente anonima, la fotografia la definirei “alla Duccio” (apri tutto), musiche originali inesistenti, VFX da youtube ma… chi se ne frega.

Il comparto tecnico passa in secondo piano quando dietro c’è una scrittura veramente curata, e il solo pensiero che che questa intera serie sia stata tirata fuori da uno spot televisivo di 8 anni fa per promuovere la Premier League negli USA (scritto da Sudeikis stesso), ci fa capire l’affetto degli autori per questa storia, cosa che ultimamente manca.