Se “americanata” fosse una critica accettabile, Stargate se la meriterebbe tutta
Quello di Stargate è davvero uno dei franchise più strani degli anni ’90. Eh sì, perché Stargate mica si fermò solo al film, ma ci diede dentro anche con serie TV, romanzi, film per l’home video (cavolo, prestò persino il nome al programma con Roberto Giacobbo su La7) in quella che è forse l’espansione di un universo passata più sottotraccia di sempre. Un po’ come il franchise di Highlander, che continuava ad essere spremuto fino al midollo nonostante alla fine niente facesse numeri da capogiro.
Se c’è una critica che non sopporto, perché troppo spesso appiccicata a sproposito e senza un vero significato, è quando un film viene definito americanata. Che vuol dire? Basta che un film sia prodotto negli USA? Che abbia troppa azione per i nostri gusti? Che esalti troppo l’american way of life? L’ho sempre trovato un termine generico e semplicistico che sminuisce, banalizza, e stronca sul nascere qualsiasi tipo di cinema “alternativo” ai nostri standard. Se poi le americanate – perchè spesso il termine è usato per i film d’azione – le fa John Woo cosa diventano? Cinesate? Tra l’altro cinesate già lo usiamo per intendere altro altro.

Insomma, è un termine che non mi piace per niente MA, ci sono dei film che mi lasciano talmente basito che persino io cedo e non riesco a descriverli con altri termini. Uno di questi è Stargate.
Se c’è un nome più associabile di altri a quello che viene spesso definito americanata è Roland Emmerich, che americano manco lo è (altra prova che americanata significa poco o niente), che con Stargate inaugurò la fase d’oro della sua carriera, quella in cui finiva stabilmente in cima alla classifica dei film più costosi/remunerativi dell’anno con film che servivano essenzialmente come centrifuga delle ultime innovazioni nel campo della CGI, da Independence Day a Godzilla, fino ai vari The Day After Tomorrow e 2012, rilanciando tra le varie cose anche il genere catastrofico.

Praticamente tutti film che campavano di CGI all’ultimo grido e trovate estetiche accattivanti, che in molte occasioni riuscivano a colmare una scrittura abbastanza – come è giusto che fosse – abbozzata e superficiale. Se in alcuni casi funzionava (The Day After Tomorrow) e in altri meno (Godzilla), Stargate si tiene un po’ nel mezzo.
Se Kurt Russell e James Spader non volevano partecipare c’è un motivo
Certo, al contrario degli altri Stargate ha ben altri intenti: non è un disaster movie che deve urlarti ad ogni inquadratura quanto la CGI ad Hollywood abbia fatto passi da gigante rispetto all’ultima volta, è anzi un film con una sua storia e una sua mitologia ben precisa, anche abbastanza affascinante, che però crolla su sé stesso proprio quando si ricorda di essere innanzitutto un blockbuster.

E infatti né Kurt Russell né James Spader volevano partecipare, trovando lo script orribile e senza senso. E non furono gli unici visto che a film ultimato, nei primi test screening, il pubblico selezionato si lamentò del fatto che il film vivesse solo di immagini fighe, e che di conseguenza la trama – parole loro – “non avesse senso”, obbligando la produzione ad aggiungere scene e dialoghi per tentare di dargli una trama accettabile.
Stargate neanche inizia così male, capelli di Kurt Russell a parte: un film di fantascienza più che onesto, con un un plot discretamente accattivante e abbastanza inedito per l’epoca, ed immagini che sembrano venire direttamente dai famosi – e bellissimi – concept art del 1975di Ralph McQuarrie per Star Wars.

Per farla breve, il film riprende una vecchissima teoria secondo cui gli Dèi dell’antichità non furono altro che alieni dalla tecnologia avanzatissima sbarcati sulla Terra svariati millenni fa, prima di tornarsene nello spazio. Praticamente il primo film a rimettere in auge la mitologia egizia ad Hollywood prima de La Mummia con Brendan Fraser. Sulla Terra viene poi scoperto uno Stargate, un portale capace di collegare tra di loro vari punti della Galassia, che viene varcato da un gruppo di militari assistiti da un esperto di geroglifici, un James Spader un po’ Bruce Banner e un po’ Milo di Atlantis.
Il gruppo tramite lo Stargate giunge sul pianeta Abydos, finché non incontrano i suddetti Déi egizi che, reinterpretati in chiave sci-fi, da quel momento elevano il livello di kitsch e pacchianaggine a livelli incredibili. Certo, non era semplice portare sul grande schermo un Anubi/Dio egizio di turno iper-tecnologico sperando di non risultare un po’ kitsch, ma se pure nei suoi momenti più camp La Mummia aveva anche una certa dose di autoironia, Stargate non fa che prendersi terribilmente sul serio in tutta la sua sua pomposità, senza mai chiedersi per un momento se quanto mostrato non sia effettivamente troppo stupido per non ironizzarci su. A meno che non si volessero considerare auto-ironia i capelli di Kurt Russell.

Cioè, i momenti comici ci sono pure, ma “ironia” e “comicità” sono in realtà due cose ben diverse.
Questi tedeschi manco più le americanate sanno fare…
Da quel momento in poi infatti Stargate mette da parte tutto il lato sci-fi e la mitologia costruita nel primo tempo per diventare quasi un altro film, una cafonata di quelle che neanche riescono a strapparti il sorriso per quanto sono esagerate e fuori luogo, un pippone sugli americani salvatori di popoli oppressi fastidioso persino per chi, come me, le americanate le apprezza pure, così tanto americanata da sembrare quasi una metafora di tutte le operazioni yankee in Sud America/Medio Oriente: arrivare, armare la povera popolazione oppressa, far rovesciare il governo locale con un colpo di stato grazie a fucili su cui hanno il copyright, e poi piazzarci i loro uomini al comando.

Che poi non ci sarebbe nulla di male, a me Emmerich piace e diverte pure, ma per lo meno l’altra sua americanata per eccellenza, Independence Day, si poneva sin dal primo secondo come quello che voleva essere: un gigantesco pop-corn movie, con il più classico dei plot fantascientifici – gli alieni che invadono la Terra AKA gli USA – usato come scusa al servizio della tecnologia moderna e delle nuove possibilità tecniche Hollywoodiane… un film che non voleva essere altro che quello, e che ci riusciva anche piuttosto bene.
Stargate al contrario poteva campare benissimo senza scadere nel grossolano, senza essere populista e autoreferenziale. Purtroppo rovina invece quanto di potenzialmente interessante seminato, iniziando come un film che potrebbe fare qualcosa di buono, ma che poi finisce non solo per non farlo, ma nell’andare nella direzione più sbagliata, facendo persino dubitare su molte cose della prima parte (la storyline del figlio morto di Kurt Russell, accennata solo nei primi minuti del film e mai più menzionata dopo, è probabilmente improvvisata per giustificare la faccia assolutamente e comprensibilmente svogliata del fu Jena Pliskken).

Cose buone ci sono pure, dalle musiche di James Horner piacevolmente riconoscibili (no, in realtà sono di David Arnold, ma hanno delle sonorità così Horneriane che scoprire non fossero sue mi ha spiazzato), ad un’estetica e un plot comunque affascinanti, purtroppo non accompagnati da una scrittura all’altezza. Probabilmente perché la voglia neanche c’era.
Bombardati di blockbuster ubriachi di CGI come siamo, oggi Stargate debutterebbe decimo al box office di Ferragosto, ma nel 1994 era una tale novità da fare una barca di soldi, ed è anzi abbastanza strano che in tempi di reboot continui come i nostri Stargate continui a restare nel cassetto, viste le sue grandi potenzialità. Chissà se sarà proprio Stargate il prossimo franchise ad essere rilanciato, sperando che stavolta ci si piazzi qualcuno di migliore alla scrittura. Ma anche qualcuno con lo stesso senso estetico di Emmerich alla regia.