Nemmeno l’MCU può distruggere Sam Raimi

Dei camei in Doctor Strange nel Multiverso della Follia non me ne fregava niente. Sapete a chi altro non gliene fregava niente? A Sam Raimi (il regista). Infatti, per molti versi quella è la parte più fiacca: visivamente, nel ritmo, nei sussulti che – si presume – dovrebbe suscitare. È il segmento che deluderà chi è andato in sala solo con l’idea di applaudire e di sbizzarrirsi con una carrellata di volti vecchi e nuovi, invece che per vedere un film. E questo è solo il primo dei tanti pregi del ritorno di uno dei più grandi registi viventi.

Non prendiamoci in giro: la gabbia produttiva è sempre quella. Non ci sono miracoli “strutturali”; la Marvel di Kevin Feige non si mette da parte, ed è in quel territorio che a Raimi tocca muoversi. Ma è come lo fa che dice tante cose. La prima è che l’equivoco che vorrebbe in non-amanti del MCU (io e i miei amici) come ostili ai film di intrattenimento deve cadere una volta per tutte: il problema non è il film di supereroi, ma è come viene realizzato, e su quel come Raimi aveva dato un saggio con la sua trilogia di Spider-Man, una vera e propria Bibbia su come fare un film supereroico pop, adottata da Kevin Feige come modello per costruire il suo blasonato universo condiviso.

Gli origin-movie del MCU non sono altro che un distillato della formula di Raimi, delle copie carbone annacquate del suo primo Spider-Man. Prima di quel film, raccontare i supereroi senza venire coperti di ridicolo era un’impresa semi-impossibile nella quale era riuscito solo Richard Donner con il suo Superman, e che per il resto, per ottenere risultati degni di nota, veniva semplicemente aggirata: pensate ai Batman di Tim Burton, che la loro forza la trovano esattamente tradendo il personaggio (nel primo film) o direttamente mettendolo da parte (nel secondo). Con Raimi questo non avveniva: l’eroe in tutina era un eroe in tutina, non ci si girava intorno ma gli si conferiva epica e autorevolezza, schivando il rischio di ridicolo con una realizzazione tecnica clamorosa e ad oggi insuperata.

Questo Kevin Feige lo sa benissimo, e nel dare le chiavi di un film Marvel al regista del Michigan, gli lascia rispolverare la sua magia. Mi pare il minimo.

I limiti però li conosciamo: non solo per capire un film MCU bisogna averne visti altri venti, ma adesso ci si sono messe pure le serie TV. Io non ne ho guardata mezza. Sapete chi altri non ne ha guardata mezza? Raimi. Lo ha detto lui stesso in un’intervista, senza vergogna: “ho visto solo le scene di WandaVision che mi servivano”. E infatti è riuscito a non farsi inglobare eccessivamente, raccontando il dramma della Wanda/Scarlett Witch di Elizabeth Olsen (bravissima, peraltro) in maniera comprensibile anche per i profani, approfittando del potenziale immaginifico del personaggio per filmare sequenze horror ricche di suggestioni visive.

A proposito di suggestioni visive: qua si vola altissimi. Tutto ciò che si affida al visivo, in questo film, si mangia in scioltezza tutti e dieci e passa gli anni di MCU. Quadri densi, ricchi, bellissimi. È un peccato che al nostro non abbiano affidato il primo Doctor Strange, che dovendo narrare le origini dell’eroe poteva smarcarsi dai paletti che qui, in parte, limitano una visione altrimenti folle, instancabile, debordante, assolutamente perfetta per il Dr. Strange di Steve Ditko.

Sam Raimi, con la classe che lo contraddistingue e con il peso del multiverso sulle spalle, firma il suo film, liquidando l’hype più triviale con scelte beffarde e spiazzanti. E torna alle origini, a un cinema di puro stile e invenzioni. Nel corso della sua carriera il nostro è infatti maturato, portando a un livello molto alto ogni aspetto del suo lavoro che non riguardasse strettamente la forma: un grande umanesimo comincia ad abitare i suoi lavori da Soldi sporchi in poi, e gli inimitabili guizzi stilistici si fanno più trattenuti, per venire poi sfogati solo in maniera funzionale. Qua invece sfoga appena può, perché sa che non può raccontare la storia con il coinvolgimento che vorrebbe, e il risultato è uno strano paradosso: è un film dove la sua poetica viene visibilmente limitata, ma anche il primo da tanti anni dove il suo estro più folle e travolgente – quello che l’ha reso famoso e amato, in sintesi – irrompe di nuovo in tutto il suo splendore.

Un film dove è costretto a ritrovare l’artista in erba, puerile e fuori controllo; il fanciullo che dopo tanti anni può tornare a fare casino senza darsi per niente un tono. È proprio per la natura “corporativa” del film che gli sprazzi di genio sono così emozionanti: sembrano arrivare quasi di sguincio, come per dispetto. Il grande illusionista che con gli anni non ha perso la mano, una forza creativa che non riesce più di tanto a rimanere rinchiusa tra le solite mura. L’arte che approfitta di qualunque spiraglio per aggredirci senza la minima timidezza.

Non è da meno un Danny Elfman scatenato, felicissimo di ritrovarsi con il suo amico di una vita e che ci si butta con un entusiasmo percepibile e contagioso. La simbiosi tra Elfman e Raimi non è diversa da quella tra Elfman e Burton: le partiture musicali danno colore e vitalità a un mondo che solo delle menti visionarie possono rendere così tangibile. Elfman è meraviglioso anche nei suoi lavori più discreti o minimalisti, ma era da un po’ che non lo sentivamo così divertente, vitale. Deve essere in un periodo particolarmente felice, come testimonia il suo incredibile nuovo album rock, Big Mess, di cui si trovano echi proprio nello score di questo film, dove la chitarra elettrica irrompe per guidare i momenti più allucinati e fuori controllo. Sembra quasi un miracolo.

L’horror è messo in scena con gusto e inventiva, spingendosi al limite massimo concesso dal rating, e la regia come in passato si diverte a giocare con i registri, a passare dall’orrore puro alla farsa con disinvoltura e sfacciataggine, come nella bellissima sequenza in cui il Dottor Strange buono sfida quello cattivo a colpi di note musicali, per non parlare di una versione zombie di Strange meravigliosa e realizzata con un make-up dall’irresistibile gusto old school.

Ovviamente il film a un certo punto deve essere rimesso in riga, e la produzione, ad esempio, si assicura di smorzare l’effetto spiazzante di un finale di per sé bellissimo e al 100% raimiano. La follia di quella scena viene infatti normalizzata subito con una sequenza mid-credit che include un cameo a caso per far contento il tizio seduto dietro di me. In compenso, la seconda scena alla fine dei titoli di coda è invece un discreto dito medio ai fan che vanno lì assetati di cose inutili (tipo un’anticipazione su cosa succederà nel film dopo), tant’è che nella sala si sono levati diversi “vaffanculo!”. “Vaffanculo!” davanti all’apparizione – spettacolare – di Bruce Campbell. Che mondo.

Il più grosso problema del film comunque è una storia tutto sommato di scarso interesse, anche se Raimi riesce a mantenere tutto su un livello più che dignitoso, chiudendo coerentemente e con la consueta semplicità da narratore classico gli archi narrativi dei suoi personaggi. Non che io non ci abbia trovato begli spunti, come ad esempio la solitudine e la malinconia di uno Strange che, viaggiando nel multiverso, si trova di fronte a un’altra versione della donna che ama e che ha deluso, vivendo il paradosso di potersi riavvicinare a lei pur non potendo davvero, trovandosi a pochi passi e al contempo ad universi di distanza. Funzionerebbe tutto molto meglio se Rachel McAdams non fosse così visibilmente poco convinta, ma è un discreto tocco.

Tolto quello, abbiamo la storia di America Chavez, quota inclusiva portata a casa con mestiere ed evitando la solita ruffianeria: nulla di miracoloso, ma almeno non rende il film insostenibile come la ragazzina intelligente di Capitan Marvel (e il rischio, conoscendo i miei polli, c’era eccome).

Insomma, Raimi c’è, e Kevin Feige con la scusa è riuscito a produrre quello che è sicuramente il miglior film del MCU. Non che abbia importanza: da quel che si legge, pare che l’autorialità gli abbia impedito di essere accolto dai consueti entusiasmi (81% su RottenTomatoes, per la media della Marvel una percentuale “bassa”). E se la critica e il pubblico per una volta sono più tiepidi, qualcosa di buono questo film deve averlo combinato per forza.

Eddie Da Silva

Killer professionista in pensione.

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