Matrix Resurrections è un film da difendere
Ci sono film che ci appaiono grandi fin da subito. Magari col tempo coglieremo sfumature nuove e li ameremo anche di più, ma sappiamo già di essere convinti. Poi ci sono quelli brutti; quelli in cui ci sembra di vedere la mano di un burattinaio maldestro, che non tiene a ciò che fa. Nel mezzo invece ci sono i film come Matrix Resurrections, che ci costringono a rimandare il giudizio.
Non è una sorpresa che gli sia stata riservata un’accoglienza mediamente negativa: è un film che può deludere, può lasciare frastornati e perplessi, così distante e vicino al tempo stesso alla mitologia costruita dalle sorelle Wachowski ormai più di vent’anni fa. Un film facile da rigettare e da stroncare.

Io stesso non ero mica “soddisfatto”, una volta uscito dalla sala: forse perché avevo delle aspettative di un certo tipo, e questo è un film che le aspettative le supera destra, preoccupato solo della sua identità.
Ma dicevo che non ero soddisfatto. Le ragioni? Due, principalmente: la prima è che Matrix Resurrections è un film verboso e a tratti per questo piuttosto sfiancante; la seconda, banalmente, sta nell’estetica. Quanto era ricercata, bella e iconica l’estetica della trilogia originale di Matrix? Qui non si prova nemmeno a cercarla e, nonostante sia un film ben fotografato, Resurrections “soffre” il confronto con la bellezza estetica del passato, specie quando ripropone vecchie sequenze in forma di flashback.
Ma una cosa va capita: lo soffre per scelta. Una scelta che fa parte del suo discorso ampio, stratificato e intelligente, impossibile da elaborare in fretta. Non troviamo tanto la precisione e la filologia estetica dei vari “risvegli della forza”, quanto un qualcosa che – per usare le sue stesse parole – utilizza “codice vecchio” per dire qualcosa di nuovo.

E quindi, perché Matrix Resurrections? A quanto pare, le sorelle Wachowski nel corso degli anni hanno ricevuto innumerevoli richieste dalla Warner per realizzare un quarto capitolo. La risposta, puntualmente, è stata no: la trilogia aveva già detto tutto, quindi a che scopo spremere ancora la formula?
Ma eravamo nel 2003, e da allora Hollywood ha lentamente dato forma al suo sistema “spremi-formule”, sempre più cieco e implacabile, mentre le due sorelle continuavano la loro carriera sperimentando, rischiando e realizzando opere controverse che – piacciano o meno – non hanno mai giocato sul sicuro.
All’inizio quello dei remake e reboot a ogni costo era un sistema ampiamente criticato, ma una volta preso il sopravvento è diventata la realtà: contestarlo ad oggi è praticamente un gesto retrogrado. Si fa la figura di chi non accetta che i tempi possano cambiare, che ci si possa “evolvere” in altre direzioni; sì, “evolvere”, mentre si utilizzano proprietà intellettuali vecchie sterilizzandole, svuotandole magari del loro significato originale e inevitabilmente della loro freschezza.

Un artista che si rispetti non può che essere insofferente alla cosa, e le Wachowski sono due artiste irriducibili e coraggiose. Da poco hanno perso i loro genitori, e la cosa le ha portate a separarsi artisticamente: Lily, la sorella minore, ha deciso di dedicarsi ad altre attività lontane da cinema e tv; a Lana invece è venuta in mente un’idea per un quarto Matrix.
“Neo e Trinity sono i due personaggi più importanti della mia vita, poterli riportare in vita mentre soffrivo per la perdita dei miei è stato di grande aiuto”: così dice Lana, e questa “resurrezione” ha infatti un valore sentimentale fortissimo. L’amore tra i due personaggi non è mai stato così toccante e umano. L’idea però è che Neo e Trinity, resuscitati nel nostro presente, debbano affrontare i cambiamenti avvenuti a 19 anni dalla loro dipartita in Matrix Revolutions.

I due trovano un presente innamorato di sé stesso, che utilizza il passato come esca per attirare a sé spettatori “nostalgici” e nutrirli con rielaborazioni asciutte e programmatiche di brand a cui sono legati. Una nostalgia che è “un rimedio per l’ansia”, stando a quanto dice il nuovo Morpheus interpretato da Yahya Abdul-Mateen II. Utilizzare Matrix per parlare di questo è un’idea geniale, e dà senso a un sequel che schiva immediatamente i cliché dell’operazione nostalgia.
In Resurrections, Neo è – come da titolo – “resuscitato”; non sappiamo come, ma lo troviamo di nuovo in Matrix nei panni di Thomas Anderson. L’Anderson di Keanu Reeves stavolta però non è più un hacker, ma un programmatore di videogiochi: la sua più famosa creazione è una trilogia di giochi di grande successo dal titolo Matrix. Ovviamente capiamo che quest’ultima racconta esattamente gli eventi dei tre film originali.

La Warner Bros. vuole che Anderson realizzi un sequel della trilogia, cosa della quale lui non vede il senso, ma che pare vada fatta per forza. Durante la prima parte del film lo troviamo completamente alienato e insofferente, diviso tra sedute di psicoterapia e riunioni aziendali in cui è costretto ad ascoltare le idee idiote dei suoi collaboratori, mentre dubita che il mondo in cui vive sia quello reale.
Al lato troviamo anche Trinity, che come Neo vive una vita “ordinaria” e insoddisfacente in Matrix, dove risponde al nome di Tiffany. Tiffany, di nuovo interpretata da Carrie Anne Moss, si sente subito affine a Thomas Anderson, con cui condivide il sentore di trovarsi in una realtà “programmata”, di non vivere la vita che le spetterebbe.

La Matrix che Lana Wachowski immagina per il nostro presente è la consacrazione di quanto ipotizzato in passato; un incubo kafkiano in cui i pensieri e le idee originali non hanno spazio, sepolti dall’immediatezza, dal culto della superficialità.
Nella prima parte del film l’approccio è di un meta che di più non si potrebbe: inevitabile pensare a film come Nightmare – Nuovo incubo di Wes Craven o Gremlins 2; film autoconsapevoli e autoironici, che non se la sentono di esistere senza ricordare a sé stessi e allo spettatore quanto le formule del sequel siano per la maggior parte del tempo triviali e insensate.

Nella seconda parte, invece, Matrix Resurrections diventa effettivamente il quarto capitolo della saga, aggiornandoci sullo stato del “mondo reale”, che a quanto pare – a differenza di Matrix – è progredito e finalmente in pace. Ma Neo e Trinity hanno un’ultima, grande missione: sono stati resuscitati e resi “schiavi” del mondo digitale, e devono affrancarsene. La catarsi dello spettatore arriva proprio quando entrambi prendono coscienza di sé e vengono finalmente liberati dalla loro condizione, resi capaci di esprimere davvero chi sono e – in quanto “eletti” – di riscrivere le regole di Matrix, di incoraggiare il pensiero libero.
Prima di arrivarci dobbiamo a tratti passare per il loro stesso livello di frustrazione, ma è una scelta voluta: pur faticoso, quello di Matrix Resurrections è un cammino spietatamente sincero, appassionato e liberatorio. Così tanto che potremmo non rendercene conto, con i nostri giudizi schiavi dell’aspettativa.

Purtroppo è vero che le scene d’azione sfigurano troppo messe vicino a quelle della saga originale, come è vero che la cura estetica è di gran lunga meno ricercata: odio quando lo dicono di qualcosa che critico, ma è fatto apposta. Il film non lo nasconde, e anzi quando può lo evidenzia (emblematico il momento in cui il nuovo Morpheus scherza sulla sua entrata in scena in un bagno pubblico).
Per sua stessa ammissione, Lana Wachowski ad oggi non sarebbe più capace di girare certe cose allo stesso modo; la sua sensibilità è diversa, la sua attenzione adesso è più rivolta al concetto che all’estetica. L’idea è: ho costruito questo mondo, cosa succederebbe se ci tornassi? Rifare certe cose ancora, quindi “ripetersi”, ma con un filtro inedito, svuotato dall’enorme ambizione formale ma arricchito per tutto il resto.
Matrix Resurrections riflette sul passato e sul presente, senza fingere che tutto sia rimasto come lo avevamo lasciato. La delusione è solo una facciata. Un gran film; un’opera da capire, da elaborare e da difendere.