La perdonabile confusione di Karate Kid 4
Forse conviene iniziare dalla fine: Karate Kid 4 non è un bel film. Non che gli mancassero le carte in regola per esserlo, con l’idea interessante – e avanti coi tempi – del gender swap, e un’ottima protagonista come Hilary Swank. Il maestro Miyagi messo a confronto con un’allieva femmina offriva nuovi spunti; a tratti il film li coglie molto bene (soprattutto nei momenti leggeri), ma molto spesso arranca.
A quanto pare si tratta di un progetto nato e sviluppato in fretta, e si vede: dove la chimica tra Hilary Swank e Pat Morita è evidente, la sceneggiatura non ha un’impalcatura in grado di tenere in piedi il tutto, né di dargli un senso.

La trama del primo film è semplice e lineare: abbiamo un ragazzino appena arrivato in una città che non conosce, i bulli che lo perseguitano, un mentore inaspettato e una sfida da affrontare. I sequel, anche se meno brillanti, rimanevano comunque abbastanza logici. Qua invece idee interessanti e idee terribili cozzano; lo sviluppo è improvvisato, non c’è direzione.
La Julie Pierce di Hilary Swank è un’adolescente irrequieta e rabbiosa, ma le sue motivazioni sono esposte in maniera così didascalica, goffa e poco credibile da far apparire spesso i suoi scatti d’ira come esagerati e fuori posto.

La fotografia del leggendario László Kovács (Easy Rider e Taverna Paradiso, tra le altre cose) è ottima, e la regia (non più di John G. Avildsen ma di Christopher Cain) fa il possibile, ma i dettagli di sceneggiatura insensati si sprecano: vediamo Julie entrare di soppiatto nel suo liceo la notte, inseguita dalle autorità, per prendersi cura di un volatile (qual era l’idea? Quella di renderla umana e simpatica al pubblico?); la minaccia dei bulli di turno – una versione slavata del cobra kai del primo e del terzo film – è una plateale forzatura, e il tutto si risolve in uno scontro finale di rara fiacchezza, che tradisce lo spirito dei personaggi e del franchise pur di offrire qualcosa di vagamente esaltante.
C’è tutto questo e molto altro di sbagliato (inclusi dei buffi monaci), eppure l’esperienza nel complesso non riesce a essere davvero disprezzabile. Giocano sicuramente un ruolo fondamentale l’affetto per la saga e per Pat Morita, che riesce a rendere il tutto dignitoso con la sua sola presenza.

I momenti piacevoli non sono pochi, ma la scena migliore – veramente bellissima – è quella in cui Miyagi finge di spiegare a Julie un nuovo Kata e invece le sta insegnando le mosse di un valzer per il ballo di fine anno: una trovata centratissima, che racchiude tutto il potenziale inespresso del film; uno slancio poetico di quelli che hanno sempre fatto la differenza nella saga di Karate Kid, divisa tra eccessi pop e momenti più distesi, quasi rilassanti.
Nulla che basti a farne un buon film, ma abbastanza per non farlo scivolare via in fretta dalla memoria. Non è una sorpresa che, a quanto pare, i realizzatori di Cobra Kai abbiano in mente di far tornare anche Hilary Swank: Miyagi è riuscito, nel suo piccolo, a rendere piacevole anche questo pasticcio.