La mosca è un capolavoro che non ha perso nulla della sua forza
Nei primi anni 2010 c’era una sovrabbondanza innegabile di reboot e remake, puntualmente indegni degli originali. Oggi il problema magari persiste, ma ci si lamenta meno; un po’ ci si è arresi, un po’ i remake ad Hollywood sono diventati il “problema minore”: è l’ossessione per il franchise come contenitore di film usa e getta ad essere deleteria. Ma ne parliamo approfonditamente qui.
Quel che voglio dire è che in quegli anni ci si lamentava spesso di questi remake, e per “ci” intendo dire che mi lamentavo spesso. E magari ero abbastanza pesante, non lo nego.

Quel che mi veniva risposto quando maledivo l’ennesimo remake inutile sotto al post di una pagina di cinema più o meno era sempre questo: “guarda che un sacco di grandi cult in realtà sono dei remake!”. Vero.
Però se è vero che il passatismo ha i suoi lati insopportabili, anche queste risposte alla lunga sono fastidiose: sì, Scarface e La cosa degli anni ’80 sono dei remake, ma questo non spoglia operazioni come i remake di Carrie o di Atto di forza o de La casa (sì, lo so che a molti piace: pazienza), ma anche de La cosa del 2010 della loro inconsistenza (se non insulsaggine) artistica.

Dico una cosa passatista ma – ahinoi – innegabile: un tempo si facevano remake migliori. Migliori di quelli di adesso, spesso migliori degli originali. Così migliori che, appunto, sono stati capaci di ritagliarsi il loro posto d’onore nell’immaginario collettivo senza dipendere strettamente dagli originali.
Se succedeva è perché di solito l’”operazione remake” fungeva da pretesto per autori di spessore per portare avanti discorsi a loro cari con la loro personale voce, con il loro stile. E quindi sì: La mosca di David Cronenberg è uno degli horror “commerciali” più belli degli anni ’80.
Un film cronenberghiano al 100%, intenso, con effetti speciali impressionanti e invecchiati zero. E poi, solo alla fine, un remake.
Amore e Body Horror
L’originale è L’esperimento del Dottor K. (in patria sempre The Fly) con Vincent Price, classe 1958, il film di Cronenberg usa lo stesso incipit – un esperimento con delle macchine per il teletrasporto che fallisce e dà vita ad un “uomo-mosca” – per fare un discorso totalmente a parte.
Nel film originale si partiva direttamente con l’orrore, con la morte per decapitazione di uno scienziato per mano della sua stessa moglie; poi si andava a ritroso per scoprire i dettagli macabri di un esperimento fallimentare.

Nel remake del 1986 invece la giornalista Veronica Quaife (Geena Davis) segue da vicino il lavoro dell’eccentrico scienziato Seth Brundle (Jeff Goldblum), che ha inventato una macchina per il teletrasporto effettivamente funzionante ma ancora non idonea alla sperimentazione umana.
I due si innamorano, gli esperimenti vanno sempre meglio, finché una sera Brundle – in un accesso di gelosia per una storia passata di Veronica – decide di sperimentare il macchinario su se stesso. Il problema è che nell’altra cabina per il teletrasporto giace una mosca, e questo darà origine a delle mutazioni dapprima promettenti (una forza sovrumana) poi via via più raccapriccianti.
La sceneggiatura scritta dallo stesso Cronenberg è asciutta, immediata ed implacabile, di una precisione chirurgica nel delineare i personaggi e farci entrare nel vivo della vicenda. Al nostro non interessa ammorbidire i passaggi potenzialmente più traumatici, ma mostrarceli per quello che sono.

Vorremmo davvero poter stare il più possibile con Jeff Goldblum e Geena Davis mentre vivono la loro love story, ma il disagio e l’orrore irrompono repentinamente, senza troppe cerimonie.
Cronenberg riesce nell’impresa oserei dire kubrickiana (!) di mantenersi apparentemente “distaccato” come regista, algido, quando il suo coinvolgimento emotivo è in realtà totale.
Come lui stesso dice parlando de La mosca, c’è la volontà di raccontare una relazione sentimentale insistendo sugli aspetti traumatici e su quelli grotteschi, sull’entrata in scena della malattia, l’impietoso disfacimento della sfera fisica e di quella emozionale.

Dato che uscì in pieno periodo di clamore mediatico per l’AIDS, c’è chi sostiene che il film cavalcasse quell’onda, fatto smentito da Cronenberg stesso: la vicenda è un’allegoria della condizione umana talmente universale che sarebbe sminuente relegarla a semplice film-metaforone sulla tematica calda del momento.
Si parla dell’orrore della malattia, dell’invecchiamento e della morte, inevitabili e tutt’altro che clementi, e il lato body horror – violenta e audace metafora visiva del tutto – è supportato prima da un lavoro di make-up ed effetti visivi clamoroso ad opera di Chris Walas, ma anche dalla prova non indifferente di Jeff Goldblum.

Goldblum non si tira indietro di fronte ai momenti più disgustosi e patetici del suo personaggio, accettando di buon grado di farsi truccare in maniera via via più raccapricciante e approfittando del suo aspetto orribile per lavorare sulle sfumature drammatiche, e una prova del genere non si scorda facilmente.
Non da meno Geena Davis, il cui personaggio sceglie di innamorarsi di un uomo straordinario e cade presto in un vortice fatto di delusione, malessere, disperazione e orrore puro. Ogni singola sfumatura ci viene restituita con convinzione e con gran classe, l’alchimia con Jeff Goldblum – con cui all’epoca stava effettivamente insieme – è evidente come sono assolutamente credibili la tristezza e la paura negli occhi della Davis man mano che l’orrore peggiora.

Cronenberg confeziona il suo primo grande successo commerciale e l’ennesimo gran film della golden age della sua carriera; un lavoro senza fronzoli, visivamente “forte” (per usare un eufemismo) ed emotivamente devastante. Praticamente perfetto. Usiamo quella parola, che dopo il già fin troppo audace “kubrickiano” dovrebbe risultare meno traumatica: capolavoro.
Nella prossima puntata: ma lo sapete che anche La mosca 2 non era affatto male?