Kevin Can F**k Himself, o perché la sitcom è morta

– Dove sono finite le sit-com? DOVE SONO??? Che fine hanno fatto?

– Sono morte… come Dio.

Kevin Can F**k Himself effettivamente ci mette davanti al naso una cosa a cui non avevo dato troppa importanza: non ci sono più sitcom. Un tempo non esisteva canale televisivo senza la sua esclusiva, dominavano il piccolo schermo. Ora sono morte e sepolte ma, nonostante ciò, le reti provano in tutti i modi a non farle dimenticare: infinite riproposte, remake in chiave dark, reunion più pietose dei remake in live action della Disney.

Il motivo della scomparsa è presto detto: è tutta colpa dei personaggi che solo all’apparenza sono divertenti, ma se ci si ferma un attimo a pensare concretamente a chi sono e cosa hanno fatto… decadono. Ci rendiamo conto che se trasportati nel mondo reale la maggior parte dei soggetti risulta tossica, immatura, crudele.

Kevin Can F**k Himself parte proprio con questo concept: come sarebbe vivere in mezzo a dei personaggi di una sitcom? Terribile, a quanto pare. Attraverso gli occhi della protagonista Allison riusciamo a squarciare il velo di finzione che offusca la commedia e ne rimaniamo disgustati. Allison stessa è disgustata ed esasperata da suo marito Kevin, è ignorata e costantemente vessata non solamente da lui ma anche dalle sue amicizie che, ignaramente, la opprimono. Quasi ci sentiamo soffocati dal mondo sitcom luminoso e colorato mentre ci sentiamo più al sicuro nel mondo “”“reale”””, più drammatico, meno colorato e fortunatamente lontano da quei personaggi comici. Il tutto messo in scena con una brillante regia che gioca sulla grammatica visiva della commedia, sfonda lo schermo, scavalca il campo, “spegne le luci”, creando esplicitamente due mondi che mai si mescolano e in cui si destreggia la protagonista.

Ma cosa fa la nostra protagonista in questa storia? Probabilmente la stessa cosa che farebbero molti di noi se vivessero con una persona come Kevin: pianifica un modo per ucciderlo. Un gesto estremo che per Allison diventa l’unica via d’uscita da quella gabbia in cui si è involontariamente intrappolata “per una risata”. Perché in effetti è proprio così che Allison conosce Kevin e inizia a frequentarlo, per una risata… una risata che ora si trasforma in un tic nervoso, poi in una rabbia repressa che consuma la protagonista, la cambia, la incattivisce diventando una pentola a pressione pronta a scoppiare.

Con l’evolversi della storia però iniziamo a vederci più chiaro, gli altri personaggi (Abby e Sam nello specifico) metteranno in discussione la verità che Allison si era costruita intorno a sé. Lei è veramente una vittima? O cerca solo una scusa per giustificare la sua cattiveria..? la sua inettitudine..?

Ho solo complimenti da fare al cast, completamente inedito ai miei occhi eccetto per Robin Lord Taylor che in molti potrebbero ahimè ricordare per la parte del Pinguino in quel mondezzaio che è Gotham, ma interpreta una parte minuscola quindi poco importa. Enorme è il plauso che va alla protagonista Annie Murphy che, con i suoi “crazy eyes”, rende esplosivo il personaggio di Allison.

In conclusione, dalle parole scritte qua sopra si può facilmente intuire quanto io sia stato entusiasta del concept e della messa in scena di questa serie. Ottimo il tema e brillanti le riflessioni che ci spinge a fare. Persino la sigla è curatissima, e cambia a ogni episodio suggerendo la trama.

Rimango però in parte insoddisfatto da quella dinamica dei “due mondi” mai mescolati, che a lungo andare diventa purtroppo ridondante e poco plausibile ma… improvvisamente… questa “regola” viene abbandonata nella scena finale. I “due mondi” per quella singola scena si sovrappongono, quasi si confondono e in quel momento ci si rende conto di quanto mancasse un momento del genere nel resto della serie, che fortunatamente ci lascia con la promessa di averne di più in una seconda stagione.

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