Il nuovo Candyman è un horror potente ma confuso

Di tutti franchise horror di cui si potesse fare un reboot, Candyman era sicuramente il più appetibile. Tutti conoscono Freddy, Jason, Leatherface o Michael Myers; solo gli appassionati conoscono Candyman.

Ad oggi poi c’è una grande fame di progetti più inclusivi e – vista l’importanza di una figura come Candyman nell’immaginario afroamericano – la cosa cadeva a pennello: trattasi infatti del primo boogeyman nero che, quando arrivò, era spaventoso al livello dei suoi colleghi bianchi più popolari, per giunta in un film (l’originale del 1992, di cui parliamo qui) splendido.

Ma i progetti inclusivi oggi devono anche dire cose importanti, e Candyman – con le case popolari di Chicago sullo sfondo – offriva anche ottimi spunti per un discorso “impegnato” ma non posticcio.

Jordan Peele conosceva le potenzialità di questa mitologia, e da produttore e sceneggiatore ha deciso di mettersi al timone di un nuovo capitolo della saga a quasi trent’anni dall’originale. Seguendo il trend più diffuso tra i recenti sequel anacronistici, questo nuovo Candyman è il sequel diretto del primo film, che ignora completamente i capitoli 2 (niente male) e 3 (orrendo), ma allo stesso tempo si pone anche come reboot e quindi sceglie di chiamarsi semplicemente Candyman come il primo film.

Si torna a Chicago, nella fattispecie al Cabrini Green, complesso di case popolari che fu teatro del massacro da cui nacque la leggenda originale di Candyman. Anthony McCoy (Yahya Abdul-Mateen II) è un pittore che da un po’ ha perso gli stimoli, non si sente ispirato e comincia a ripetersi. Quando per puro caso sente il racconto di Elen Lyle (protagonista del primo film) si lascia attrarre dal Cabrini Green, dalle leggende ad esso legate e quindi da Candyman, fantasma con un uncino al posto della mano che uccide chiunque dica il suo nome cinque volte davanti allo specchio.

Anthony, in leggerezza, fa l’errore di evocarlo, e da quel momento le cose precipitano vertiginosamente: molta gente muore, mentre lui comincia ad andare fuori di senno. Scopre che il mito di Candyman è ancora più vasto di quel che sembra, e che ne esistono diverse incarnazioni. Nel frattempo, la puntura di un’ape sta facendo lentamente marcire il suo corpo…

Questo nuovo Candyman aveva tutte le carte in regola per essere un film validissimo, ma la realtà è che funziona e non funziona.

Funziona quando la regia si sfoga, non funziona quando gli autori cercano di tenere le fila della mitologia originale (di cui hanno un gran rispetto, va detto) ma hanno l’eccessiva ambizione di ampliarla, finendo col farsela sfuggire un po’ di mano. Non che gli spunti non siano quelli giusti, ma andavano decisamente ordinati meglio.

L’idea che trattandosi di una leggenda metropolitana la figura di Candyman abbia diverse incarnazioni è buona, ma allora queste altre versioni devono quantomeno provare ad avere un carisma paragonabile a quella “sacrificata” di Tony Todd, mentre invece appaiono piuttosto blande e giocate per i (bei) momenti di terrore come dei mostri generici.

Il fatto che la versione più “aristocratica” di Todd nascesse dall’oppressione bianca sul finire dell’800 e che le successive incarnazioni popolane nascano invece dalla brutalità della polizia nei quartieri dei neri è ottima, peccato che il discorso sociale rimanga molto in superficie, liquidato con scene di scarso effetto quando non didascaliche.

La sceneggiatura infatti sembra più che altro voler mettere in fila i vari spunti piuttosto che sviscerarli sul serio, e così non ci arriva né la fascinazione per il concetto di moderno folklore – per la forza delle storie horror da falò – né tantomeno è a fuoco il discorso politico. Sul piano della scrittura è un mezzo fallimento, detta in soldoni.

Però c’è la regia. La giovane Nia DaCosta – al suo secondo lungometraggio – è decisamente la salvezza di questo nuovo Candyman, ed ha uno sguardo così interessante da riscattare il film. Quando la sceneggiatura offre spunti per bei momenti visivi lei li sfrutta appieno, sempre attenta a rendere interessante ogni sequenza, abile e mai schematica nell’orchestrare i (potentissimi) momenti horror.

Sparge sangue ovunque senza timidezza, trova il modo di inquadrare l’orrore da lontano senza per questo smorzarlo, ma rendendolo in qualche modo addirittura più disturbante. Il fatto però è che per quanto forti possano essere queste sequenze, soffrono la mancanza di un set-up solido.

L’originale metteva paura perché lavorava bene sui momenti “ordinari”, su dei personaggi credibili, tangibili; in questo modo, quando arrivava l’orrore – mai chiamato – eravamo scioccati quanto i protagonisti.

Qua invece si ha a volte l’impressione di vedere dei mini corti horror appiccicati senza soluzione di continuità al resto, vedasi la scena horror ambientata nel bagno di un liceo: ottima, ma slegata e senza ripercussioni sulla storia.

Insomma, Candyman è un film sfilacciato ma tecnicamente eccelso, con le giuste atmosfere malate e barkeriane (Clive Barker viene anche omaggiato timidamente in una scena in lavanderia) e con sequenze horror ottime. Come sequel dell’originale è gradevole, ricco di rimandi gustosi e di collegamenti assennati (le origini del protagonista faranno la gioia dei fan), ma è talmente legato al prototipo che come reboot forse lascerà un po’ disorientati gli spettatori più occasionali.

Se non altro possiamo dire di trovarci davanti a un horror da sala finalmente un po’ cattivo e decisamente ben diretto, e anche che Nia DaCosta è una regista da tenere d’occhio. Peccato infatti che sia già stata adescata dalla Marvel di Kevin Feige (dirigerà The Marvels, sequel di Captain Marvel), pronta a spersonalizzarla senza pietà.

Eddie Da Silva

Killer professionista in pensione.

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