Ghostbusters Legacy funziona finché non asseconda i fan
Contiene spoiler.
“Ma davvero giudichi male un film basandoti sul trailer!?!?!?”. Sì, è divertente. Mal che vada uno ci azzecca, mentre nel migliore dei casi arriva la sorpresa inaspettata. Ghostbusters: Legacy – non l’avrei mai detto – è quasi quella sorpresa.
Vi dico perché il trailer mi sembrò tutto sbagliato: perché lo era. Quell’enfasi, quelle vibrazioni da Stranger Things (con tanto di Finn Wolfhard come membro del cast) e tutto quel prendersi sul serio semplicemente fanno un insieme che grida inequivocabilmente “RUFFIANO!”, una roba melensa che se gliela proponevi a Bill Murray, Harold Ramis, Dan Aykroyd ed Ernie Hudson negli anni d’oro nemmeno ti degnavano di una risposta. È letteralmente l’antitesi di quel che loro hanno sempre fatto, da bravi alfieri di una comicità fatta di trovate debordanti e di tanta, rilassante scorrettezza.

Oggi sono anziani, probabilmente nostalgici, sicuramente senza più nulla da dimostrare. Li richiamano per un’operazione nostalgia e loro magari dicono sì, ma lì finisce: sarebbe ingenuo aspettarsi che ci mettano impegno e si curino che tutto sia fatto a modo. Ma è pure giusto! Mi pare di vederli: “sì, ragazzi, fate il vostro film, tranquilli, non è più roba nostra”. È naturale.
E allora ci tocca un’operazione che fa più leva su cosa significhi Ghostbusters per chi lo ha vissuto quando uscì, piuttosto che su cos’è davvero. Un film che asseconda una percezione distorta dalla nostalgia, la visione dei fan che pretendono di appiccicargli addosso una solennità che semplicemente non gli appartiene. Le premesse non sono delle più incoraggianti, insomma.
Ma facciamo un passo indietro: che cos’è, davvero, Ghostbusters?
Quando cinque anni fa uscì il famigerato reboot al femminile firmato Paul Feig, i fan non la presero bene; un po’ perché era brutto, molto perché era al femminile. In ogni caso, era Ghostbusters. Quattro comiche del Saturday Night Live e gag a profusione su un canovaccio con suggestioni horror e sci-fi: sulla carta tutto giusto, l’esatto equivalente dell’originale ma al femminile. E allora perché è brutto? Prima di tutto perché gli manca una squadra altrettanto forte. Il team dell’originale era composto da alcune delle menti comiche migliori di quegli anni, poteva contare sui guizzi e sulle idee di tutti, ma anche e soprattutto sulla passione reale di Dan Aykroyd (sceneggiatore assieme ad Harold Ramis) per l’esoterismo. Una commistione che poteva portare a un pastrocchio irricevibile come a un film vincente, e ovviamente sappiamo tutti com’è andata: Ghostbuters è diventato un classico quando nessuno l’aveva calcolato né se lo aspettava.

Replicare la formula-Ghostbusters è impossibile perché non è una ricetta “sicura”: la goliardia deve incontrare il genio, la forza delle trovate. Far ridere è un conto (e certe gag del film 2016 erano divertenti), farlo con colpi da fuoriclasse continui è invece tutto un altro paio di maniche. La prova di questo sta nel tanto bistrattato Ghostbusters II: meno riuscito del primo, certo, per certi versi un film stanco, ma con certe gag devastanti.
Legacy allora decide direttamente di fare altro, perché se facesse davvero un film “alla Ghostbusters” i fan – senza nemmeno rendersi bene conto del perché – si risentirebbero. Ha un team di comici affiatati e genialoidi? No. Non ci sono proprio comici, a parte Paul Rudd. Trovate umoristiche memorabili? Nemmeno. Di umorismo ne ha anzi troppo poco (poi ci torno). Sulla carta sembrerebbe un incubo, ma la sorpresa qui è che per la maggior parte del tempo questo cambio radicale di tono ha un suo senso, e serve il cuore del racconto. Dietro a questo sequel/reboot infatti c’è Jason Reitman, figlio dell’Ivan Reitman regista dei due film originali, e il trucco è questo: piuttosto che fare un’operazione calligrafica, Reitman figlio realizza un film molto suo, una storia sull’infanzia piena di suggestioni ambliniane (il cinema di Spielberg con cui è cresciuto) che – finché ci riesce – parla di eredità con grande sincerità e rispetto.

Il primo grosso cambiamento è che si passa da New York alla cittadina rurale di Summerville, in Oklahoma. Scopriamo che l’Egon Spangler del compianto Harold Ramis si è trasferito lì senza dare spiegazioni a nessuno, tantomeno a sua figlia, abbandonata quando era ancora piccola. Egon muore proprio a Summerville, dove era diventato una sorta di “matto del villaggio”. Oggi sua figlia è adulta, è madre ed è al verde, quindi decide di trasferirsi nella casa di campagna lasciatale in eredità. Con sé porta i suoi due figli: il maggiore, Trevor (Finn Wolfhard), vive le sue avventure adolescenziali, mentre sua sorella minore Phoebe (la bravissima Mckenna Grace) – ragazzina con una propensione particolare per la scienza – scopre presto che nella casa di suo nonno hanno luogo fenomeni paranormali.
Come avrete intuito, Ghostbusters: Legacy non è un film di Ghostbusters: è un’avventura per ragazzi dal sapore anni ‘80, tra Joe Dante e Spielberg, raccontata con affetto e con un gusto sfacciatamente retrò. Questo a partire dalle (spettacolari) musiche di Rob Simonsen: sognanti, ispirate, con un piglio che ricorda (con le debite proporzioni) il lavoro di compositori come John Williams e Jerry Goldsmith. L’ambientazione rurale è suggestiva, mentre l’avventura ha un respiro ampio che manca a troppi blockbuster contemporanei. Tutto questo funziona veramente bene, ma quel che manca fin da subito è la commedia.

Sì, il film è leggerino e piacevole, ma si ride veramente troppo poco. Quando le scene offrono assist evidenti è come se la scrittura si rifiutasse di coglierli, di essere anche un minimo briosa. Questo difetto si acuisce quando il film a un certo è “costretto” a pagare lo scotto e a somigliare in qualche modo anche ai vecchi film di Ghostbusters: la credibilità purtroppo a quel punto va a morire, e si sdoganano tutti i paragoni vari ed eventuali. La povertà umoristica non si può infatti più ascrivere al cambio generale di tono: è proprio che mancano le idee. Con Aykroyd e soci il “problema” era probabilmente che di idee ne avevano anche troppe, questo per dire il dislivello. Il fatto poi è che quando Legacy smette di essere un (bel) film di Jason Reitman e diventa più simile al prototipo, si perde anche per strada la caratterizzazione dei personaggi, lasciandoci di fatto con un film monco.
La ciliegina sulla torta? Un (in)evitabile, fastidiosissimo fanservice.

C’è una cosa molto carina nel primo atto del film, e cioè che la nipotina geniale di Egon è in contatto con il fantasma del nonno: giocano a scacchi, riparano insieme i vecchi zaini protonici… quella di Egon è una presenza invisibile e silente ma palpabile, e – va detto – emozionante. È per questo che è un peccato quando devono farlo apparire fisicamente, resuscitando Harold Ramis con i soliti mezzucci offerti dal digitale, che non funzionano da quando sono diventati di moda (Rogue One) e non cominceranno certo adesso. Si passa letteralmente da uno dei tocchi più eleganti che potessero venire in mente a Reitman al più pecoreccio.
Va poi detto che arrivato a quel punto il film si affloscia clamorosamente, con uno scontro finale fiacco e brutto da guardare e un’apparizione “a sorpresa” dei vecchi Ghostbusters che più posticcia non si potrebbe. E allora Ghostbusters: Legacy smette di essere quel “qualcos’altro” che rischiava addirittura di sorprenderci e diventa esattamente quello che gli viene chiesto: l’ennesima pacca sulla spalla del “fan”. Un fan con le idee pochissimo chiare, peraltro.