Final Destination, la saga che potrebbe andare avanti per sempre
La fortuna di un franchise horror la fa il suo villain. Michael Myers, Freddy Krueger, Jason Vhoorhees, Ghostface, Leatherface e via discorrendo hanno una cosa in comune: sono delle icone. Per molti di questi macellai si sono collaudate e poi spremute formule che non potevano rimanere “fresche” a lungo, quindi entrava il gioco il lavoro del fan. Il fan lo sa che andando avanti l’ossatura dei film comincerà a scricchiolare, che la credibilità – per quanto si possa effettivamente parlare di “credibilità” – sarà un aspetto del quale gli sceneggiatori si preoccuperanno via via sempre di meno. Sa che dovrà accontentarsi di altro e gli va bene, finché la mascotte della saga – Michael, Freddy o Jason che sia – è pronta a dare spettacolo.
Esiste però una serie cinematografica horror longeva ed estremamente popolare che è riuscita ad aggirare questo problema, trovando un villain che non avesse bisogno di mettersi in ghingheri per spaventare: la morte.

In Final Destination il nemico è letteralmente la morte; non uno scheletro incappucciato armato di falce, ma un’entità invisibile e meticolosa, che ha un piano ben delineato per tutte le vittime del film.
Di regola si comincia con una premonizione. Il protagonista ha una visione così vivida, così tangibile sulla sua imminente morte da dare di matto: “L’ho visto! Moriremo tutti! Dobbiamo andarcene da qui!”. E come volete che reagiscano le persone lì intorno, se non pensando di trovarsi di fronte a un semplice delirio? Ma la morte poi colpisce davvero, e lo fa seguendo per filo e per segno lo schema preannunciato. Il protagonista – che si mette in salvo mentre gli danno del matto, ovviamente – capisce quindi di avere a che fare con una forza ineluttabile, che non accetta di venire raggirata e che farà di tutto per prendersi ciò che le spetta, uccidendo uno per uno i superstiti del primo attacco sferrato nel film.

Perché di Final Destination non ne esca uno all’anno francamente non me ne capacito. Potrebbe tranquillamente andare avanti all’infinito. La cosa più bella di questa saga – con all’attivo cinque capitoli e un sesto all’orizzonte – è il gioco che fa con lo spettatore: il nemico invisibile fa in modo che monti una suspense tremenda, ma allo stesso tempo ci si può divertire a tentare di immaginare come verrà fatto fuori il prossimo personaggio, quale sarà l’effetto domino di “sfighe” sguinzagliate dalla morte per garantire una fine atroce ai malcapitati di turno.
Final Destination è la saga horror da pop-corn per eccellenza, quella per la quale i realizzatori non si dovranno mai sforzare di far resuscitare il cattivo in maniera creativa ma solo di lavorare sulle morti più pirotecniche, imprevedibili e divertenti possibili. Ed effettivamente finora ha sempre retto botta: ci sono capitoli peggiori di altri, ma l’intrattenimento non manca mai. Analizziamoli uno per uno.
Final Destination (2000), di James Wong

Final Destination nasce dalla penna di Jeffrey Reddick, che inizialmente vuole farne una puntata di X-Files. L’idea gli viene leggendo un articolo sulla vera storia di una ragazza “scampata alla morte”. La ragazza in questione deve prendere un aereo, quando riceve una chiamata da sua madre: “Non partire, ho un brutto presentimento”, le dice. Per qualche ragione la ragazza decide di darle retta e di disdire il volo, e poi succede: l’aereo su cui si sarebbe dovuta trovare precipita.
A Reddick sembra un incipit interessante su cui costruire una storia. Il concetto di base è: “e se effettivamente il suo destino fosse stato quello di morire?”. Partendo da questo nasce quindi l’idea della Morte come villain invisibile. Gli viene consigliato di lasciar perdere X-Files e di espandere la sua idea nella sceneggiatura di un lungometraggio, ed eccoci qua.
Sotto le mani sapienti del regista James Wong e del co-sceneggiatore Glen Morgan – che riscrivono il copione per renderlo più “di genere” – Final Destination prende definitivamente forma.

Il primo capitolo della saga si presenta bene: le musiche di Shirley Walker (compositrice mai abbastanza ricordata, ne parliamo qui) creano un’atmosfera da subito inquietante, e veniamo introdotti a un gruppo di protagonisti teenager in procinto di imbarcarsi in un volo per Parigi, mentre il sentore che qualcosa di brutto stia per accadere è fortissimo, anche se non capiamo di cosa potrebbe trattarsi.
Poi il protagonista, Alex, ha una premonizione: l’aereo esploderà. Il ragazzo dà in escandescenze, si azzuffa con un compagno di classe che gli intima prepotentemente di smetterla e viene scortato fuori dall’aereo assieme a pochi altri suoi compagni di classe e una sua professoressa. Agli occhi di tutti sembra solo essere stato vittima di un violento attacco di panico, ma nel giro di poco la verità si palesa agli occhi di tutti: Alex aveva ragione, l’aereo esplode. Così, assieme a lui, si salvano la sua professoressa e pochi dei suoi compagni di classe, tra cui il suo migliore amico Tod. Ma non è finita lì, ovviamente.

Qualche sera dopo Tod muore. Alex era stato in qualche modo “avvertito” anche di questo, e capisce che dietro a queste morti c’è una forza esterna. Lui e i suoi amici si renderanno presto conto che si tratta nientemeno che del disegno della morte, che intende prendersi tutti i superstiti dell’incidente aereo nell’ordine esatto in cui sarebbero dovuti morire. E’ l’inizio di una corsa contro il tempo, in cui i giovani protagonisti faranno il possibile per sfuggire a una fine “scritta”.
Interessante in tutto questo il piccolo ruolo di Tony Todd (che i fan dell’horror conosceranno sicuramente come il volto storico di Candyman), una figura misteriosa e sinistra che spiega ai protagonisti le regole del gioco; un espediente tanto “buttato là” quanto efficace. Del suo personaggio – figura ricorrente nella saga – non scopriremo mai nulla, né chi sia né perché sappia così tante cose, e a lungo andare la cosa si farà effettivamente inquietante. Com’è inquietante (ma soprattutto ansiogeno) il “nemico invisibile”.

Come ci spiega il signor Todd, la morte ha infatti mille mezzi e stratagemmi, è creativa e imprevedibile. In questo primo capitolo abbiamo in embrione ciò che renderà ancora più divertenti molti dei successivi: le morti sono causate da una serie di apparenti coincidenze di cui ci divertiamo ad ammirare l’efficienza, e in più di un caso non disdegnano il grottesco, sfociando nella commedia horror.
La suspense e il divertimento ci sono già in abbondanza, ma soprattutto c’è un’atmosfera particolarissima che la saga non riuscirà più a replicare, se si esclude il terzo capitolo, sempre diretto infatti da James Wong. Il modo in cui l’angoscia e il malessere montano nei primi minuti non può lasciare indifferenti, e nonostante non si prenda mai troppo sul serio questo onesto teen horror sa come scuotere lo spettatore. Impossibile annoiarsi.
Con la sua idea di base tanto semplice ma geniale e con il suo campionario di morti cattivissime (tra cui segnaliamo quella di una ragazza investita da un autobus poco dopo aver pronunciato la frase “voglio andare avanti con la mia vita!”), il primo Final Destination è un primo capitolo coi fiocchi.
Final Destination 2 (2003), di David R. Ellis

James Wong è impegnato sul set di The One con Jet Li, quindi viene sostituito da David R. Ellis, in carriera attivo principalmente come stuntman e regista della seconda unità. E infatti la forza di questo capitolo 2 è proprio l’orchestrazione delle morti più spettacolari ed esplosive. L’incipit e le regole sono le stesse; le morti invece si fanno molto più assurde e molto più divertenti.
L’incubo ricomincia in autostrada. La protagonista di questo secondo capitolo, Kimberly (A.J. Cook) ha una premonizione: un gigantesco incidente, un effetto domino che porterà alla morte truculenta di diversi sventurati. Ridestatasi dalla sua visione, Kimberly dà in escandescenze e, come da copione, riesce a prevenire la sua morte e quella di chi è nelle sue immediate vicinanze. Da qui un nuovo gruppo di persone si troverà a dover fronteggiare il nemico invisibile.
L’intuizione giusta di Final Destination 2 è quella di alzare il tiro, con delle morti orchestrate con ancora più creatività, ancora più folli e cartoonesche. I personaggi sono mediamente scemi e/o insipidi, cosa che rende ancora più comica l’attesa per le loro morti inevitabili, nelle quali spesso cadono anche per mera stupidità: la migliore è quella del ragazzino che si mette senza ragioni apparenti a spaventare dei piccioni, si piazza sotto una lastra di vetro e viene spappolato da quest’ultima.

Gli unici legami con il primo sono il personaggio Ali Larter e quello di Tony Todd; per il resto c’è un completo ricambio, ed è da segnalare la presenza di Michael Landes, uno spaesato pseudo-sosia di George Clooney che ha chiaramente pochissima voglia di essere lì.

Il primo incidente in autostrada è di una potenza micidiale, ma anche il resto del film non scherza affatto: gente decapitata da ascensori, schiacciata e ridotta in poltiglia da una lastra di vetro, tranciata di netto col filo spinato e divisa in tre pezzi…
Se dovessi consigliarvi un capitolo a caso da guardare per passare una bella nottata horror goliardica, sarebbe questo.
Final Destination 3 (2006), di James Wong

Stavolta la protagonista, Wendy (Mary Elizabeth Winstead), ha una premonizione durante una serata al luna park con i suoi compagni del liceo: le montagne russe su cui saliranno saranno vittime di un guasto, e moriranno tutti. In preda a un attacco isterico viene allontanata dall’attrazione, e insieme a lei anche altri finiscono con il non salirci più. Poi le cose vanno come devono andare, e lo schema si ripete.
Torna James Wong, e Final Destination 3 è probabilmente il capitolo più iconico della saga insieme al primo. Il motivo è semplice: quello che il primo ha fatto con i viaggi in aereo, questo lo fa con le montagne russe.
Il lato divertente di Final Destination è quel suo ipotizzare la morte in scenari comuni, ai quali non penseremmo mai: si può morire al bagno o in cucina, durante una visita dal dentista o semplicemente attraversando la strada. Ma volare e andare sulle montagne russe sono due attività alle quali molti si approcciano con una certa strizza. Io, ad esempio, ho il terrore di entrambe le cose, e se non mi è mai passato ho il sospetto che Final Destination ci abbia messo del suo (insieme a una scena di Glamorama di Bret Easton Ellis in cui viene descritto un incidente aereo con scientifica crudeltà).

Nel terzo più che in altri capitoli emerge il nichilismo di fondo della serie, che esorcizza l’assurdità della morte con sequenze splatter ai limiti dell’assurdo, divertenti come un’attrazione da luna park ma che grazie all’interpretazione emotivamente coinvolta della sempre ottima Mary Elizabeth Winstead sembrano davvero avere un peso per i personaggi. Tra le varie (ottime) morti, spiccano quella di una ragazza abbrustolita nel lettino abbronzante e quella di un palestrato ucciso dall’attrezzatura per l’allenamento.
Ultima volta di Shirley Walker come compositrice, prima di venire sfortunatamente a mancare l’anno stesso. Tony Todd stavolta si limita a un cameo vocale: è la voce di una giostra degli orrori.
The Final Destination (2009), di David R. Ellis

James Wong se ne va di nuovo e di nuovo passa il testimone a David R. Ellis. In Final Destination 4, chiamato più semplicemente The Final Destination, l’orrore inizia a una gara di auto da corsa. Nella premonizione del protagonista, Nick (Bobby Campo), l’arena in cui lui e i suoi amici stanno vedendo la gara crolla uccidendo un sacco di gente. Da lì in poi ha inizio la consueta sarabanda di morti creative.
Il terzo aveva stile, follia e persino un pizzico di sostanza. A questo rimane solo la follia: i personaggi non sono altro che pedine, e accettano le regole del gioco con una nonchalance che fa anche simpatia, ma rende difficile rimanere troppo coinvolti. Dalla sua ha che è brevissimo (appena 80 minuti), quindi in una maratona fa il suo dovere e, pur essendo il meno riuscito dei cinque, si lascia guardare con piacere. Belle le morti, specie quella in cui un tizio viene risucchiato dallo scarico di fondo di una piscina, ma anche su quel versante la saga ha dato di meglio: qui c’è un eccesso di CGI (bruttina), probabilmente al servizio del 3-D in cui uscì il film in sala. Fortuna che quella moda ce la siamo tolta di mezzo in fretta.
Final Destination 5 (2011), di Steven Quale

La premonizione che fa scattare il tutto nel quinto capitolo è su un ponte che crolla. La prima sequenza è divertente, catastrofica e piuttosto ben fatta: certo, nulla a che vedere con il mega incidente in autostrada, ma si parte col piede giusto.
Niente più James Wong, niente più David R. Ellis: dirige James Quale, un nome nuovo per la saga. Final Destination 5 è decisamente meglio del 4: le morti non sono solo spassose ma anche molto ben orchestrate, con una suspense costruita benissimo e un’esecuzione registica impeccabile. C’è anche l’idea non male di giocare con la psicologia dei personaggi in modo diverso, rivelando che l’unico modo di salvarsi dal disegno della morte sia quello di uccidere qualcun altro.
La morte più memorabile è sicuramente quella ambientata in un centro massaggi, con il malcapitato di turno a cui viene spappolata la testa da una statua di Buddha.
Inizialmente il quarto capitolo venne pensato per essere l’ultimo, ma alla fine l’onere se lo accolla questo quinto, che nel finale si collega in maniera molto divertente al primo film. Ma perché tutta questa ansia di chiudere? Sono passati più di dieci anni e questo è ancora l’ultimo film della saga: la sensazione di vuoto che lascia a fine visione è sconfortante. Se c’è una saga che vorremo veder andare avanti a oltranza, è questa. Eccovi infatti una buona notizia: pare che un sesto capitolo sia in lavorazione, prodotto da Jon Watts e destinato (ahinoi) a HBO Max invece che alla sala. Speriamo che si ricordino ancora come si fa.