Drag Me to Hell è ancora uno dei migliori horror degli ultimi anni
Il ritorno all’horror di Sam Raimi con Drag Me to Hell deve essere stato parecchio liberatorio. Reduce dall’esperienza devastante con Spider-Man 3 – all’epoca il film più costoso mai prodotto – fece il gesto più logico: tornare alle origini. Volare più basso con i costi ma sempre altissimo con la creatività, girare un film “piccolo” sulla carta ma con cui poter dare sfogo al suo estro con meno pressioni produttive possibili (tant’è che è co-prodotto dalla sua casa di distribuzione, la Ghost House).
Nel 2009 Raimi era a digiuno da horror da più di vent’anni, se siamo tutti d’accordo nel definire La casa II il suo ultimo apporto puro al genere.

A chi dirà invece The Gift dico che sì, lì c’erano elementi horror, ma era più un dramma con il sovrannaturale. Un film molto forte che consiglio a chiunque, che a conti fatti si reggeva su un copione sì bello (scritto curiosamente da Billy Bob Thornton), ma che forse poteva essere affidato ad un qualunque altro mestierante, uno che non l’avrebbe magari girato così bene ma che sarebbe riuscito a portarlo a casa degnamente. Poi in mano a lui diventa un diamante, ma questo è un altro discorso.
Drag Me to Hell, tornando a noi, è invece un giro sulle giostre dell’orrore di quelli che solo Raimi sa fare così bene, con tutte le finezze del caso ma che recupera anche quel gusto per il morboso ed il puerile che aveva caratterizzato i suoi esordi.

Trama! Christine Brown (Alison Lohman) è impiegata ad un ufficio prestiti, e in ballo per lei c’è una grossa promozione, contesa sfortunatamente con un collega agguerrito e meschino. Il suo capo le fa sapere che è più propenso a dare il posto a chi è disposto a prendere “decisioni difficili”, così Christine rifiuta di accordare una proroga del mutuo dell’anziana zingara Sylvia Ganush (Lorna Raver), che si ritrova senza una casa.
L’anziana la supplica, ma Christine non cede, e la vecchia – umiliata – le scaglia contro una maledizione che le renderà la vita un inferno, e dalla quale cercherà di affrancarsi affidandosi ad un medium.
Le cose che si troverà costretta a fare saranno sempre più degradanti e disperate: ce la farà? Chissà, l’importante ad ogni modo è che mentre cerchiamo di scoprirlo la troviamo vittima delle cose più assurde/disgustose.

Torna insomma il gusto di Raimi per il grottesco, per il disgusto (guardate qua sopra), torna la sua capacità di spaventare sul serio e allo stesso tempo di strappare risate sguaiate, nervose o meno che siano. Il suo senso dell’umorismo sadico non appare sbiadito neanche un po’, e ad imbrigliarlo non ci riesce nemmeno un rating pudico come il PG-13 (che di solito è la morte dell’horror).
Di nuovo rispetto ai suoi vecchi horror c’è che il racconto è di una precisione impressionante. Una sceneggiatura ad orologeria – scritta da Raimi stesso assieme a suo fratello Ivan – che ci afferra per il colletto dalla prima scena e non perde la concentrazione nemmeno per un attimo, che non lascia nessun dettaglio al caso e che anzi gioca a depistarci con abili trucchi degni dell’illusionista che Raimi è stato in gioventù, e alla fine sorprende quasi sempre.

A fare la differenza – oltre alla solita regia potente e di gran classe – c’è infatti quel piglio da cinema classico che ha la narrazione: puntuale, precisa, sintetica ma ricca di dettagli, capace di dirci tanto sui personaggi con poco, di farci affezionare a loro e di far funzionare le svolte più tragiche o inaspettate, come un finale crudele veramente da brividi.
Trovo ad ogni modo sbagliato vederlo troppo come un film che vuole dispensare insegnamenti, come una feroce critica all’arrivismo. Chiaramente il piglio da “morality tale” c’è tutto, ma spesso molte analisi vengono spinte troppo in là, dando il via ad evidenti sovrainterpretazioni “politiche”, come se avere certi sottotesti servisse in qualche modo a nobilitarlo: in realtà non mi è sembrato un film che ce l’ha con il sistema o cose del genere, ma una storia che attraverso una situazione paradossale riflette prima di tutto sull’umanità, fa in modo che sia tangibile.

I personaggi sono fragili e volubili, ma non c’è paternalismo da parte di Raimi, non viene puntato il dito contro nessuno, cercano solo tutti di rimediare ai loro errori e di mandare avanti le proprie esistenze più o meno disperate. Drag Me to Hell è insomma un film umanamente molto coinvolto ma visibilmente più attratto dall’idea di intrattenere che da quella di cullare il nostro intelletto a suon di metaforoni, e questo per quanto mi riguarda è solo un bene. È cinema puro.
Un film “minore” nella sua filmografia? Può darsi, ma solo perché gli altri sono film giganteschi. Se questo fosse stato l’esordio di un regista giovane staremmo tutti a gridare “CAPOLAVORO!”; valutandolo come film di Sam Raimi lo facciamo ugualmente, ma con quella vocina che ci sussurra “e certo, che ti aspettavi?”.