Com’era lo Spider-Man di Stan Lee e John Romita?
Il primo storico ciclo di Spider-Man firmato Stan Lee e Steve Ditko (di cui vi abbiamo parlato qui) si concluse nel 1966 dopo 38 numeri e una serie di svolte: Peter Parker aveva appena iniziato l’università, il cast di personaggi si era completamente rinnovato e il Sessantotto era dietro l’angolo. Quella di Ditko era un’eredità pesante, che Lee decise di affidare all’italoamericano John “Jazzy” Romita dopo aver apprezzato la sua versione del Ragno su Daredevil #16.

Ma ai tempi i personaggi Marvel avevano pochissimi anni di vita, e nessuno sapeva come i lettori avrebbero digerito l’addio di uno dei loro disegnatori più amati: se i Fantastici 4 erano solo di Jack Kirby, Spider-Man era solo di Steve Ditko, c’era un’estetica ben definita e cambiarla sembrava un sacrilegio, tanto che su Daredevil Romita disegnò Spider-Man tentando di imitare Ditko (come visibile nella foto qui sopra). Ma Lee ebbe l’intuizione giusta: dare ai fan una copertina così sconvolgente che nessuno avrebbe badato al cambio di matita. Ed ecco che Amazing Spider-Man n°39 si aprì con una bomba atomica in copertina: Spider-Man smascherato da Goblin, con la promessa che anche quest’ultimo avrebbe calato la maschera.

Fu un evento enorme: nessuno aveva mai scoperto l’identità del Ragno (tranne il Dr. Octopus nel n°11, ma si risolse tutto in una bolla di sapone), così come nessun lettore conosceva l’identità di Goblin, che come tutti sappiamo si rivelerà essere Norman Osborn.
Certo, alla fine della storia Goblin subirà un colpo alla testa che gli farà perdere la memoria, ma si trattò comunque di un numero importantissimo, un vero e proprio checkpoint della serie, da cui Romita iniziò a distaccarsi da Ditko per disegnare il personaggio in modo più personale. Ma il “metodo Marvel” per la stesura delle storie prevedeva che scrittore e disegnatore fossero praticamente sceneggiatori alla pari, dunque il passaggio di matita non si limitò ad un semplice cambiamento grafico, ma a un totale cambio di direzione.
Il nuovo, nuovissimo Spider-Man
I due avevano stili e formazioni molto diversi: Ditko aveva un passato da fumettista horror, mentre Romita veniva dai fumetti rosa, più esperto nel disegnare bei visi che eroi in calzamaglia, e non a caso fu lui a dare un volto a Mary Jane e un aspetto più maturo e piacente a Peter Parker.

Rispetto allo Spider-Man aracnoide, ipercinetico e volutamente sgraziato di Ditko, quello di Romita era più elegante, muscoloso e granitico nei movimenti: una versione molto simile a quella di Jack Kirby (modello di Romita, come lui ammetterà sempre) e che diventerà il riferimento per tutti i disegnatori che si approcceranno al Ragno nel ventennio successivo, tanto che la sua versione è considerata a tutt’oggi quella definitiva.

Sul piano grafico, Romita consacrò lo storico Thwip! (l’iconica onomatopea della ragnatele di Spider-Man, inaugurata da Ditko nel n°36, la più celebre di tutta la Marvel insieme al Klang! dello scudo di Capitan America o lo Snikt! degli artigli di Wolverine) e rafforzò il connubio tra Spider-Man e New York. Rispetto alla Grande Mela astratta, espressionista, notturna e quasi hard boiled di Ditko, Romita riservò maggior attenzione alla vera e geometrica architettura newyorkese: è con lui, infatti, che iniziano ad apparire simboli cittadini riconoscibili come l’Empire State Building o le caffetterie del Greenwich Village (come il Silver Spoon e il Coffee Bean, i luoghi di ritrovo di Peter e i suoi amici), legando Spider-Man all’immaginario newyorkese più che mai.

L’attenzione di Romita per il mondo reale fa anche trascorrere il tempo: se il mondo di Ditko era congelato in un tempo indefinito (ma comunque sempre molto vicino all’estetica degli anni ’40) in quella di Romita piove, nevica, le stagioni passano e la moda si evolve, dalla rinascita della barba (come gli improbabili baffi alla Fu Manchu che Harry Osborn mostrerà nel n°74), alle minigonne (esplose in popolarità tra il 1965 e il 1966) fino ai capelli delle ragazze, che iniziano ad apparire più moderni. Basta dare un’occhiata a Gwen Stacy, che Ditko disegnava con un look da
vamp anni ’40, a cui Romita cambierà radicalmente aspetto (e anche carattere).

Romita arrivò nella seconda metà del 1966, quando tutti i media stavano pian piano capendo quanto i giovani e la controcultura stessero cambiando il mondo con la loro nuova coscienza politica, e quanto stare dietro a questi cambiamenti fosse a dir poco vitale per qualsiasi artista, tanto che alla fine dell’anno anche il Times per la sua celebre nomina di “Uomo dell’Anno” eleggerà simbolicamente non una persona, ma un’intera generazione: i “Twenty-five and Under”, i ragazzi sotto i 25 anni.

Il 1967 che era alle porte è invece l’anno in cui Il Laureatocambiale regole di Hollywood, i Doors pubblicano il loro primo disco, i Beatles sfornano Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, canzoni come So Happy Together e I’m a Believer sono i singoli più venduti dell’anno, e a New York iniziano i “Central Park be-ins”, raduni svoltisi tra il 1967 e il 1970 a Central Park per rivendicare i diritti civili e protestare contro il Vietnam.
Nonostante fosse già un uomo d’altri tempi (classe 1922, dunque all’epoca già 44enne), Stan Lee provò subito grande fascino per questa nuova ondata di fermento giovanile, trovandoci quasi una seconda giovinezza, anche esteriormente: è in questo periodo che adotta il suo iconico look funky fatto di baffi, occhiali e capelli lunghi, che non abbandonerà più.

Avendo un protagonista universitario e newyorkese, per Stan Lee Amazing Spider-Man doveva sprizzare quell’energia e quel senso di cambiamento che si tastava nel mondo reale, “aggiornando” persino il linguaggio della rivista con parole più in linea coi tempi (come groovy, termine molto popolare tra gli adolescenti degli anni ’60, che da noi potrebbe tradursi “ganzo”), soprattutto per le gag con zia May, che tenterà di replicare maldestramente il “linguaggio dei giovani”.

Amazing Spider-Man stava cambiando pelle esattamente come il mondo reale e, stando ad alcuni, proprio questa fu una delle cause dell’addio di Ditko. Oltre che per alcune questioni creative (Ditko non voleva che Goblin si rivelasse essere Norman Osborn) ed economiche con la Marvel, Ditko non era entusiasta all’idea di portare i cambiamenti del mondo reale in quello fittizio e isolazionista dei fumetti, anche per una visione politica e filosofica molto diversa da quella liberale di Stan Lee: basti pensare che, nel suo ultimo numero disegnato (iln°38, del 1966), Ditko scelse di far “scontrare” Peter Parker con degli studenti contestatori fuori dalla sua università.

Era chiaro che in questo particolare momento storico l’umanesimo di Lee e l’oggettivismo di Ditko non potevano più coesistere.
Fu un cambio di direzione totale: se lo Spider-Man di Ditko era un noir supereroistico delle atmosfere cupe, quasi angoscianti, spezzate solo dall’ironia e dall’ambientazione liceale di Lee, da questo momento il motore della trama non sarebbe più stato il fardello di Spider-Man, ma la vita sociale e amorosa di Peter Parker, e Amazing si trasformò in una soap opera (in senso buono, in fondo ogni saga/franchise/serie TV che seguiamo è una soap opera) che avrebbe parzialmente messo da parte i toni amari e pessimistici visti con Ditko in favore di un’atmosfera più leggera.

Fu anche un’esplicita richiesta dei fan, che nelle varie lettere indirizzate alla Marvel chiedevano di far rilassare ogni tanto Peter Parker. In particolare, i figli piccoli di Romita, Victor e John Romita Jr., che chiesero al padre perché anche Peter ogni tanto non si divertisse, cosa che Romita apprezzò parecchio (“Per me era un complimento, dimostrava che i nostri personaggi erano così realistici da essere considerate persone vere”).
E infatti solo nei primi 7 numeri di gestione di Romita, Gwen Stacy si trasforma da acida e glaciale compagna di università a dolce ragazza della porta accanto, Peter si compra una moto per spostarsi per New York indipendentemente da Spider-Man e inizia a stringere amicizia con Harry Osborn, con cui andrà a convivere dal n°46 (in un appartamento gentilmente offerto da un Norman Osborn ancora in piena amnesia). Con un Peter ormai indipendente, anche zia May se ne andrà da casa Parker per andare a convivere con l’amica/vicina di casa Anna Watson.

In questo clima di novità, la suddetta Anna Watson aveva una nipote, che le due zie volevano assolutamente far uscire con Peter per un appuntamento al buio. Peter però non voleva affatto conoscerla, convinto si trattasse di una zitella che l’amica della zia tentava disperatamente di sistemare.

Ma la nipote di Miss Watson era comunque pronta a sconvolgere il mondo di Peter Parker e a dare una scossa alla serie perché, come è facile intuire dal cognome, la “nipote di Miss Watson” era una certa Mary Jane Watson.
“Hai appena fatto centro“
Era una gag-tormentone della serie dai tempi di Ditko: Peter cercava di evitare l’appuntamento in tutti i modi possibili, tanto che nessuno sapeva che aspetto avesse Mary Jane (e le rare volte che era apparsa, era sempre con qualcosa a coprirle completamente il viso), e infatti i due non si incontrarono mai per oltre un anno e mezzo. Mary Jane venne nominata per la prima volta nel n°15, ma non si vide mai in faccia per oltre 2 anni, finché Lee e Romita nell’agosto 1966 decisero di far cadere il mistero con un cliffhanger nell’ultima vignetta del n°42, con uno dei momenti più citati e celebrati della storia del fumetto americano: il primo faccia a faccia tra i due, e l’iconico “Ammettilo tigre, hai appena fatto centro“

Come per molti altri suoi personaggi, a Romita l’ispirazione venne direttamente da Hollywood, visto che Mary Jane fu modellata su Ann-Margret, futura candidata all’Oscar appena salita alla ribalta per aver affiancato Elvis Presley nel 1964 in Viva Las Vegas (anche se Romita si ispirò a lei dopo averla vista su Ciao, Ciao Birdie), e conosciuta anche in Italia tra il 1967 e il 1968 per aver fatto da co-protagonista a Dino Risi e Vittorio Gassman ne Il Profeta e Il Tigre (dove, ironia della sorte, anche Gassman veniva soprannominato “tigre”).

Nella mente di Lee, Mary Jane non nasce affatto per mettersi con Peter Parker, ma solo per fare da ostacolo alla già programmata storia tra Peter e Gwen. Ma successe qualcosa che Lee non aveva previsto: i lettori impazzirono per MJ. Senza volerlo Gwen e Mary Jane erano un po’ le due facce dell’evoluzione del ruolo della donna negli anni ’60: una più tradizionale, l’altra più emancipata.

Gwen era una ragazza acqua e sapone, la (fin troppo) brava e romantica ragazza della porta accanto da presentare ai propri genitori; studiosa, responsabile e che viveva in funzione del suo uomo (Lee stesso ammise di averla scritta sin dal principio per farla fidanzare con Peter Parker). Inoltre, Gwen era figlia di un poliziotto e quindi di un certo tipo di borghesia, cosa che si rifletterà in alcune sue discutibili prese di posizione; dal litigare con degli studenti in rivolta, al provare ammirazione per la decisione di Flash Thompson di arruolarsi volontario per il Vietnam… tutte cose non proprio ben viste negli anni della controcultura e della lotta all’establishment.

Mary Jane era l’opposto di Gwen: era un personaggio libero; voleva fare l’attrice, e di sposarsi e mettere su famiglia non ne voleva sapere nulla (un’eresia per quello che chiedeva la società alle donne dei tempi), amava tutto quello che ai tempi era sovversivo – da Jim Morrison a Easy Rider – e viveva la sua vita pensando solo alle feste, alla musica, al divertimento. Se Gwen era l’idealizzazione della brava ragazza, Mary Jane era il vero personaggio interessante, unico e anticonformista per i suoi tempi.

I lettori colgono subito questa differenza, e infatti nella guerra fredda tra le due per conquistare Peter tifano tutti per la rossa, chiedendo insistentemente nelle lettere mandate alla Marvel di far mettere Peter con lei invece che con Gwen. Tra questi lettori c’era un giovane 13enne chiamato Gerry Conway, che 6 anni dopo diverrà (a soli 19 anni!) il successore diretto di Stan Lee alla scrittura di Amazing Spider-Man, nonché futuro architetto della relazione tra Peter e Mary Jane, che a riguardo disse:
“Gwen era un bel faccino, ma nient’altro. Era una ragazza troppo “perfetta” per uno con mille problemi come Peter Parker. La cosa assurda è che avevano per le mani Mary Jane, il personaggio femminile più interessante che ci fosse nei fumetti, e non l’avevano sfruttata a dovere: per me era destino che MJ fosse la ragazza di Peter dal primo momento che ha varcato la sua porta, e invece l’avevano resa l’amica della sua ragazza!”
Mary Jane aveva un magnetismo naturale, e il suo successo fu improvviso e travolgente, tanto che Romita nel n°59 la fece persino apparire in copertina, un “privilegio” che né Betty Brant, né Liz Allan, né Gwen Stacy, né nessun altro personaggio femminile avevano mai avuto.

Ma Lee non voleva cambiare i suoi piani, e chiese addirittura a Romita di tagliargli i capelli per rendere MJ meno attraente agli occhi dei lettori! Ed ecco che MJ per qualche numero inizierà a portare un taglio corto, in seguito mai più riproposto.

Ai fan comunque importava poco dei cambiamenti che subisce Mary Jane e continuavano a tifare per lei, tanto che Lee si vide “costretto” a farla sparire dalle storie fino per un periodo, finché alla fine i lettori non iniziarono ad accettare Gwen. MJ si impose da subito come il personaggio femminile più popolare della Marvel, e più in generale come uno dei più grandi breakout character mai visti in un fumetto, uno di quei personaggi che sembrano vivere di vita propria, così tanto da ritagliarsi da soli uno spazio sempre maggiore, senza che nessuno lo avesse previsto.
Gli Happy Days di Spider-Man
Nonostante la loro faida, alla fine Gwen e Mary Jane diverranno amiche, formando insieme ad Harry Osborn e Flash Thompson il gruppo di amici di Peter.

Il gruppo aveva anche un luogo di ritrovo fisso come quelli delle sitcom, il Silver Spoon e poi il Coffee Bean – praticamente Happy Days, ma 7 anni prima di Happy Days –, entrambi situati nel Greenwich Village, che dopo essere già stato l’epicentro della beat generation negli anni ‘50 fu anche il principale teatro della controcultura newyorkese dei sixties.
Considerato il quartiere dei giovani e degli artisti, è infatti nei locali del Village degli anni ’60 – come il celebre Café Wha – che iniziarono ad esibirsi artisti ai tempi semisconosciuti come Bob Dylan, Jimi Hendrix, i Velvet Underground, Simon & Garfunkel, un 19enne Bruce Springsteen, o comici come Woody Allen e Richard Pryor.

In questa nuova fase per Spider-Man le nuove creazioni furono relativamente poche (anche se debutteranno comunque Rhino, Shocker, Kingpin, Silvermane, il nuovo Avvoltoio, e Prowler), mentre invece per Peter Parker Lee creò tantissimi nuovi personaggi: nonostante l’uscita di scena di personaggi storici come Frederick Foswell (reporter del Bugle di giorno e infiltrato noto come “il Pirata” di notte, che dopo essere stato uno dei personaggi più importanti e ricorrenti del ciclo di Lee e Ditko verrà ucciso nel n°52 dagli uomini di Kingpin) e Flash Thompson (che si arruolerà volontario per il Vietnam), oltre a Mary Jane al già ricco cast visto con Ditko si aggiunsero il padre di Gwen, George Stacy (un ex capitano della polizia in pensione), e Robbie Robertson, capo redattore del Daily Bugle che diverrà una presenza fissa tanto quanto Jameson.

Il cambio di matita tra Ditko e Romita è probabilmente il miglior esempio possibile di quanto il disegno possa cambiare la percezione di una storia pur condividendo lo stesso scrittore (ossia Stan Lee): l’alleggerimento dei toni fu dovuto anche al disegno più “dolce” di Romita, capace di rendere glamour anche i momenti più drammatici coi suoi personaggi belli da vedere, al contrario di Ditko che “sporcava” spesso i volti dei personaggi di sofferenza, senza che nascondessero mai le loro angosce e paure.

Una nuova direzione che trovò il suo picco quando Peter e Gwen si misero ufficialmente insieme. Come da tradizione, tra i due ci sarà qualche ostacolo, ma alla fine, per una volta, le cose finiranno bene per l’Arrampicamuri, che farà coppia fissa con Gwen a partire dal n°59, mentre Mary Jane inizierà a frequentare Harry Osborn.

Naturalmente Spider-Man continuava ad essere comunque più che presente, anche in belle storie come il celebre Spider-Man Mai Più (n°50), o Fuga Impossibile (n°65), ma era abbastanza chiaro che i momenti in borghese di Peter Parker si facessero preferire a quelli in costume, anche a causa delle trame “ragnesche” non sempre convincenti, come la mai del tutto azzeccata storyline dei genitori di Peter agenti segreti (che per fortuna sarà ignorata fino agli anni ’90), l’improbabile Dr. Octopus coinquilino di zia May nel n°54, o la perdita di memoria di Peter Parker tra il n°55 e il n°58.
Se lo Spider-Man di Ditko era solitario, con una vita amorosa tormentata, e odiato da stampa, polizia, e newyorkesi, quello di Romita al contrario aveva degli amici, una ragazza, una sua indipendenza, e persino dei sostenitori influenti a difendere Spider-Man dalla stampa come George Stacy e Robbie Robertson. Per la prima volta Peter Parker sembrava riuscire a conciliare le sue due vite. O quasi.

A spezzare parzialmente questo clima di serenità fu la seconda rivista dedicata all’Arrampicamuri dopo Amazing, realizzata sempre da Lee e Romita e chiamata The Spectacular Spider-Man, con l’obbiettivo di proporre storie più lunghe, autoconclusive e dai toni più cupi, in cui Romita cambiò anche approccio al disegno con tavole disegnate appositamente per il bianco e nero e che risultassero più drammatiche e fotografiche di Amazing. Ne venne fuori una delle più grandi prove del Romita di quegli anni:

Già dal numero successivo, però, l’editore Martin Goodman chiese di far tornare Spectacular Spider-Man ai colori, ma il tono più drammatico fu comunque confermato, perché andò in scena uno dei momenti migliori di tutto il ciclo : il ritorno della memoria di Norman Osborn (inclusa l’identità di Spider-Man).

La storia, chiamata Goblin Vive, è una delle più belle della gestione Lee/Romita (soprattutto da parte del secondo, in stato di grazia assoluta), e vede Norman Osborn scoprire le sue carte nel modo più subdolo possibile: far sapere a Peter del suo “risveglio” invitandolo a cena a casa sua insieme ad Harry, Gwen e Mary Jane, riempiendolo di frecciatine e provocazioni, sapendo che davanti a tutti nessuno oserà fare la prima mossa. Un momento che per certi versi ricorda la scena del Ringraziamento del primo Spider-Man di Sam Raimi e che, pur durando poche vignette, nella sua semplicità è uno dei momenti migliori di tutto il ciclo (segnando anche il primo incontro tra Gwen e Norman Osborn, ignari che in futuro entrambi saranno le cause delle rispettive morti).

Dopo Goblin Vive, le faccende di Spider-Man torneranno ad essere interessanti quanto la vita privata di Peter Parker, soprattutto con la celebre “saga della tavoletta” (n°68-75), la più lunga che Lee avesse mai dedicato a Spider-Man, dove anche il parco villain si inizierà a rinnovare (è in questo periodo che debuttano Silvermane, il Maggia, la moglie di Kingpin Vanessa Fisk e il loro figlio Richard). Tuttavia, c’era ancora un elemento a rendere le faccende di Peter Parker più interessanti delle battaglie di Spider-Man: una piccola grande bomba atomica chiamata Sessantotto.
The Amazing Sessantotto
Oggi la nostra generazione usa la parola boomer per intendere qualcuno dagli ideali conservatori e anacronistici, il che è piuttosto paradossale, visto che quella dei baby boomer fu la prima generazione a raccogliere l’eredità della beat generation e a battersi per concetti e idee che oggi rivendichiamo come nostre – dall’ambientalismo, all’uguaglianza razziale e sessuale, ai diritti delle donne –, per di più in tempi in cui la società considerava inaccettabile anche solo avere i capelli lunghi.

Al di là del nome, il Sessantotto non iniziò nel 1968, che fu “solo” l’anno di esplosione di tendenze e pensieri che si stavano smuovendo già a inizio decennio. Molti, ad esempio, considerano le proteste dell’Università di Berkley del 1964 come il suo primo ruggito, quando un ragazzo italoamericano di 22 anni chiamato Mario Savio (già attivista per i diritti degli afroamericani) ribaltò il campus una volta scoperto del divieto di qualsiasi attività politica e dunque di libero pensiero nell’università. Qualcuno partecipò perché voleva sinceramente cambiare il mondo, qualcuno perché era di moda, qualcuno per rimorchiare… non importava il perché, contava solo esserci, bastava la presenza “per dare prova di essere vivi“, come diceva sul finale il protagonista di Fragole e Sangue, il più celebre dei film sulle proteste studentesche americane.

Se grazie alla New Hollywood è più facile delineare l’arrivo del Sessantotto nel mondo del cinema, per i fumetti della Marvel Amazing Spider-Man fu l’equivalente più tangibile. E in effetti che negli anni ’60 un personaggio universitario e newyorkese ignorasse i moti del Sessantotto sembrava piuttosto irrealistico, visto che proprio New York fu l’epicentro della controcultura occidentale insieme a Londra e San Francisco.
È infatti alla Columbia University di Manhattan che Jack Kerouac “fonda” la beat generation, è a New York che Robert Zimmerman diventa Bob Dylan, è New York la prima città americana a conoscere i Beatles, è nello Stato di New York che nel 1969 si svolgono Woodstock e la rivolta di Stonewall (considerata simbolicamente la nascita del movimento di liberazione omosessuale), ed è sempre nella Grande Mela che nell’aprile 1968 gli studenti decidono di occupare la già citata Columbia University, in seguito alla scoperta di una collaborazione segreta tra l’università e il Dipartimento della Difesa per progettare nuove armi e mezzi militari da impiegare in Vietnam; un evento che ispirerà a sua volta il già citato Fragole e Sangue nel 1970 (che spostò però l’ambientazione a San Francisco) e Amazing Spider-Man stesso.

Come detto prima, le crescenti proteste universitarie si erano già viste nell’ultimo numero disegnato da Ditko, ma la rappresentazione più eclatante avvenne nel n°68, chiamato proprio “Crisi al campus” uscito 5 mesi dopo l’occupazione della Columbia University. L’occupazione universitaria non fece solo da sfondo nella storia, ma fu addirittura un elemento centrale, oltre che essere l’inizio della celebre “saga della tavoletta”.

In “Crisi al campus” Peter trova la sua università a un passo dall’occupazione studentesca per delle motivazioni molto simili a quelle della Columbia. In tutto questo caos, l’università ospita anche un’antica tavoletta di inestimabile valore che Kingpin ha intenzione di rubare per motivi non precisati. Kingpin decide allora di recarsi all’università in piena notte e con le proteste ancora in corso per approfittare del caos e rubarla, sapendo che tanto tutti daranno la colpa agli studenti. Ma la tavoletta è ambita anche dal Maggia (l’unione delle mafie newyorkesi dell’universo Marvel) e dal suo anziano leader Silvermane, perché contenente la formula dell’eterna giovinezza, una formula che in seguito su Silvermane avrà persino troppo effetto, ringiovanendolo a tal punto da farlo retrocedere alla condizione di feto.
“Crisi al campus” fu un numero diverso dagli altri anche per la consistente presenza di afroamericani e di espressioni prima poco conosciute dalle masse come “zio Tom” (definizione con cui si intende un nero asservito ai bianchi, popolarizzata ai tempi soprattutto dai discorsi di Malcolm X), e uscì in edicola il 10 ottobre 1968, appena 6 giorni prima dei famosi pugni chiusi di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi del 1968. Nel mondo reale qualcosa stava decisamente succedendo.

Dietro a questa improvvisa comparsa degli afroamericani – prima quasi completamente assenti nelle storie di supereroi – in questo particolare numero c’era un motivo ben preciso: l’occupazione della Columbia, infatti, avvenne anche per un secondo motivo, ossia per la decisione dell’università di costruire una palestra dai contorni segregazionisti nel Morningside Park, il principale parco di Harlem, con cui la Columbia University è confinante. Una causa che unì la SAS (la Student Afro Society) agli studenti bianchi per decidere di occupare l’università insieme.

Ad alimentare la rabbia della comunità nera c’era stata anche l’uccisione di Martin Luther King, avvenuta appena 19 giorni prima dell’occupazione della Columbia, senza contare che tra l’università e gli afroamericani c’era già stato un precedente velenoso risalente al 1958, quando l’università sfrattò ben 7.000 residenti di Harlem (quasi tutti neri o portoricani) dalle loro proprietà del quartiere, tanto che alcuni pagavano l’affitto direttamente alla Columbia. L’apporto dei giovani afroamericani nelle proteste studentesche era dunque qualcosa che Amazing non poteva ignorare.

La maggiore inclusione degli afroamericani fu un’altra grande conquista che portò il Sessantotto: escludendo le macchiette caricaturali degli anni ‘40 e ‘50, il primo vero personaggio nero della Marvel fu la spalla di Nick Fury, Gabe Jones, ma se si parla di supereroi il primato come noto appartiene a Pantera Nera (1966). Se per avere un altro supereroe nero bisognerà aspettare l’arrivo di Falcon nel 1969, nell’attesa Amazing Spider-Man sarà la rivista Marvel che più integrerà afroamericani nel proprio cast.
L’aggiunta più rilevante fu quella del già citato Robbie Robertson del Bugle, che Romita creò basandosi su Sydney Poitier (primo nero a vincere un Oscar da attore protagonista nel 1964) e di suo figlio Randy, debuttante come studente contestatore nel n°67. Proprio il rapporto tra Robbie e suo figlio rappresenterà la “questione afroamericana” su Amazing, in particolare nel n°73, quando Randy rivelerà al padre di voler abbandonare gli studi per diventare un militante del Black Power. Robbie ovviamente cercherà di far desistere il figlio, rispondendogli che l’unico modo per contrastare il pregiudizio della società e affermarsi tra i bianchi non era nella lotta armata, ma nella cultura e nello studio per cambiare il sistema dall’interno, come faceva lui lavorando per il Bugle.

Oggi potrebbe sembrare un insegnamento un po’ naive, soprattutto se proveniente da uno scrittore bianco, ma bisogna tenere conto che sessant’anni fa anche solo vedere degli afroamericani interrogarsi sul loro ruolo nella società in un fumetto di supereroi era una novità tutt’altro che scontata, qualcosa che sarebbe stato inconcepibile (o addirittura non autorizzato) fino a una manciata di mesi prima.
Tra i nuovi personaggi afroamericani va citato anche Hobie Brown, alias Prowler, creato da Romita ma disegnato per la prima volta da John Buscema, debuttante come antagonista nel n°78 ma che già dalla seconda apparizione (n°87) sarà un alleato dell’Arrampicamuri, fingendosi Spider-Man per una notte per tirare fuori dai guai Peter. Tecnicamente Hobie Brown si potrebbe dunque definire il primo Spider-Man nero mai apparso, 41 anni prima di Miles Morales.

Il Vietnam, grande argomento di quegli anni, venne trattato in modo molto più defilato, limitandosi all’arruolamento volontario di Flash Thompson, praticamente l’unico vero riferimento al conflitto. La partenza per il Vietnam avveniva infatti con l’arruolamento volontario o tramite sorteggio, che dal 1969 divenne grottescamente televisivo come fosse un gioco a premi: 366 palline in un cilindro (una per tutti i nati ogni giorno dell’anno, 29 febbraio incluso, per tutti i ragazzi tra i 19 e i 25 anni) e 195 estrazioni per determinare chi dovesse partire in Vietnam. Il bilancio finale fu di oltre mezzo milione di soldati americani impiegati, con quasi 59.000 morti, 303.000 feriti, e quasi 2000 dispersi.
Come ammise Romita stesso, le stesure delle storie erano sempre improvvisate mese per mese, senza grande programmazione: un processo che consentiva alla rivista di essere costantemente aggiornata su quello che accadeva nel mondo reale, e che rafforzò l’affetto dei lettori.

Già nel 1965 Spider-Man apparve in un sondaggio condotto da Esquire riguardo le icone rivoluzionarie più amate dai giovani universitari, finendo in lista accanto a nomi come Malcolm X, Bob Dylan e Che Guevara: una popolarità che negli anni della controcultura si rafforzò ancora di più, perché era il personaggio che più di tutti si muoveva in un mondo reale e riscontrabile nella movimentata quotidianità dei tempi, oltre che ad avere un’età più vicina a quella dei movimenti studenteschi.

L’eredità del ciclo di Lee e Romita, 60 anni dopo
Il ciclo di Lee e Romita non ebbe una fine ufficiale come quello di Ditko: dal n°74 Romita per sopperire ai tanti impegni con la Marvel inizierà a farsi affiancare da John Buscema e Gil Kane, non ricoprendo più il ruolo di unico disegnatore della rivista, ma dando sempre comunque il suo apporto.
In quest’ultima fase, il ciclo tornerà a toni meno spensierati e più drammatici: basti pensare al n°87, probabilmente il numero più Ditkyano del ciclo, che recupererà molti dei topoi tipici delle primissime storie, dalla progressiva perdita dei poteri, alla salute di zia May, ai problemi amorosi ed economici di Peter Parker, che avrà un tale crollo nervoso da stress da presentarsi alla festa di compleanno di Gwen con la maschera di Spider-Man in mano, rivelando a tutti la sua identità.

Come accennato prima, a tirare fuori dai guai Peter sarà Prowler/Hobie Brown, che si fingerà Spider-Man davanti a tutti per convincere che Peter e il Ragno fossero due entità separate, e che la rivelazione di Peter non fosse altro che un delirio dovuto allo stress. Chi non se la bevve fu invece George Stacy, che già da qualche numero iniziava a nutrire sospetti sulla sua identità.

Nonostante il lieto fine, già da qualche numero era chiaro che i tempi spensierati fossero finiti, e che ci fosse un nuovo cambio di direzione per cui la versione classica di Lee e Romita poteva considerarsi conclusa. Qualcuno considera simbolicamente la fine del ciclo Amazing Spider-Man n°90 del 1970, dove in una battaglia tra Spider-Man e il Dr. Octopus morirà George Stacy, che in punto di morte rivelerà a Peter di aver scoperto della sua identità. Da lì la tragedia tornerà a dominare Amazing Spider-Man come non si vedeva dai tempi di Ditko, causando una temporanea rottura tra Peter e Gwen (che per riprendersi dalla morte del padre vivrà a Londra per un breve periodo), a cui seguiranno altre storie simili come Amazing Spider-Man n°96 (il celebre numero della tossicodipenza di Harry Osborn) o il n°121 (dove morirà Gwen Stacy) che certificheranno il ritorno al dramma delle origini.

Andò così indirettamente anche per il mondo reale, quando l’innocenza e l’aggregazione delle proteste furono represse fino alla tragedia: tre mesi dopo la morte di George Stacy si verificò il massacro della Kent State University, il momento più tragico delle proteste studentesche americane, dove la polizia sparò ben 67 proiettili tra i protestanti anti-Vietnam, uccidendo 4 studenti tra i 19 e i 20 anni. L’episodio cambiò molto l’opinione pubblica sul conflitto, e diede il via a Washington a un’insurrezione popolare che costrinse addirittura il Presidente Nixon a fuggire dalla città per due giorni, mentre in un altro ateneo – stavolta esclusivamente afroamericano, la Jackson State University – pochi giorni dopo sempre la polizia sparò su 12 studenti, uccidendone due. Tutte cose che però non fecero minimamente desistere Nixon, che non solo non diminuì la portata della guerra, ma anzi la estese fino alla Cambogia, chiamando ancora più ragazzi alle armi.

Nonostante tutti questi “lividi”, e benché molti obiettivi non vennero raggiunti, col senno del poi quasi tutte le opere sull’argomento (tra cui lo stesso Fragole e Sangue) preferiranno guardare al lato più romantico di quegli anni: così come nella memoria collettiva, gli anni delle contestazioni saranno ricordati come anni di aggregazione, gioia, libertà e di sfida all’autorità, nell’immaginario comune lo Spider-Man di Lee e Romita sarà sempre legato ai suoi momenti più romantici e allegri, al netto del suo tragico epilogo (le morti di Gwen e George Stacy), scritto in anni di tale energia e cambiamento che nessuno nelle varie retrospettive “oserà” sporcarne l’innocenza ricordando i lati più oscuri e drammatici che caratterizzarono gli ultimi numeri.
Fece così nel 2002 anche una delle storie più belle mai scritte sul Ragno, Spider-Man: Blue, dove un Peter Parker ormai adulto e sposato con Mary Jane “parla” con Gwen, ormai morta da anni, registrando dei nastri che lei non sentirà mai, rivivendo e ricordando con malinconia quegli anni felici (in particolare gli eventi tra il n°39 e il 49), gli unici dove sembrava aver conciliato le sue due vite. O quasi.

A tutt’oggi c’è una pacifica divisione tra i fan su quale sia il miglior ciclo di Spider-Man tra quello di Ditko e quello di Romita. Di certo furono molto diversi: se quello di Ditko fu qualitativamente superiore, quello di Romita traboccava di vita, energia, novità, idee e nuovi personaggi come Spider-Man non ne avrà più dopo, e per certi versi fu persino più importante nella costruzione della mitologia del Ragno. Se si dice che confermarsi sia molto più difficile che affermarsi, il ciclo di Lee e Romita riuscì in qualcosa di ancor più difficile: confermarsi senza ripetersi, avere il coraggio di cambiare pelle in pochissimo tempo e non adagiarsi su quanto seminato nei 38 immortali numeri targati Ditko, ma anzi ampliare sempre più il cast muovendosi in direzione quasi opposta al passato senza snaturarsi, e attraversando quasi 5 anni (1966-1970) del pezzo di storia americana storicamente e artisticamente più frizzante del ‘900, racchiudendo lo zeitgeist di un’epoca irripetibile.
