Ma qualcuno se lo ricorda The Amazing Spider-Man?
L’antipatia che provai per The Amazing Spider-Man ai tempi della sua uscita penso di averla provata per pochi altri prodotti cinematografici. Forse nessuno.
Erano gli anni in cui le discussioni web sul cinema cominciavano a farsi più diffuse, giusto in tempo per scoprire dell’esistenza di un nutrito gruppo di nerd con un punto di vista completamente sballato sulla trilogia di Sam Raimi, viziato dai meme, dall’incapacità di leggere un’opera cinematografica.

D’improvviso quei film erano diventati robaccia: saltava fuori che avevano tradito troppi elementi iconici del personaggio di Stan Lee e Steve Ditko (un esempio tra tanti: le ragnatele organiche al posto degli spararagnatele), che Tobey Maguire era un “pesce lesso”… insomma, le solite cose che avrete letto migliaia di volte.
Comunque non fu solo il mio amore per la trilogia originale a condizionarmi, ma anche tutto ciò che circondava l’evento di un reboot così precoce: The Amazing Spider-Man era atteso come la venuta del Messia, il film che avrebbe finalmente consegnato ai fan del personaggio una versione “degna”, più fedele ai fumetti; il tutto infiocchettato con un approccio più vicino ai Batman di Christopher Nolan, quindi tra (molte) virgolette ””””realistico”””””.

I “danni” indiretti della saga di Nolan li sentiamo ancora oggi, e The Amazing Spider-Man fu solo una delle prime vittime: non possono esserci quesiti logistici insoluti, tutto deve essere collegato e tutto deve tornare; il “sense of wonder” è roba da sfigati, quindi dobbiamo sapere esattamente com’è che tale eroe ha assemblato il suo costume, con quali componenti e con quale preparazione.
Nei nuovi Spider-Man con Tom Holland, i voli di Spidey con MJ sono come (presumibilmente) sarebbero nella realtà: lei non si emoziona minimamente, è solo comprensibilmente terrorizzata.

Il fatto è questo: gli Spider-Man di Raimi non hanno mai chiesto scusa per i loro elementi “da fumetto”, per quei momenti in cui c’è un tacito accordo con lo spettatore, che sa – o dovrebbe sapere – che, come li metti li metti, certi elementi sono semplicemente impossibili nella realtà. Tanto vale accettare che in un film ci siano e basta e divertirsi. Ma a quanto pare questo, superata l’infanzia e la prima adolescenza, risulta imbarazzante per molti.
Com’è se l’è fatto, Peter Parker, un semplice ragazzo del Queens, un costume così fico? Rilancio con un’altra domanda: è davvero importante saperlo? Risposta: no. Ma la moderna sensibilità impone che ci siano risposte elaborate a domande stupide. Non è più imbarazzante questo?

The Amazing Spider-Man inizia subito rubando una delle cose più ignobili della storia editoriale del personaggio: i genitori di Peter Parker sono agenti segreti, per questo lo lasciano con gli zii. Inizia quindi già sbagliato, The Amazing Spider-Man: Peter Parker non è un ragazzo qualunque a cui capita qualcosa di incredibile, ma è straordinario fin da subito, in certo senso è un predestinato.
Questo elemento appesantisce non di poco la narrazione man mano che il film avanza, adombrando gli eventuali pregi: lo zio Ben di Martin Sheen, ad esempio, è un bel personaggio, e non è un male che si parli di più di un confronto tra lui e il vero padre di Peter, tra un uomo istruito e brillante (lasciamo perdere che si tratti di una spia…) e uno più semplice ma non per questo meno saggio. Nulla di esattamente “nuovo”, ma gli dà un colore diverso, salvandolo da paragoni vari ed eventuali.

Il fatto che tutto sia trainato dall’indagine sui super-genitori di Peter non lascia però respirare i momenti (spesso centrati) da “gente comune” che vivono i personaggi principali; momenti che storicamente per l’Uomo Ragno hanno sempre fatto da contraltare all’universo fantastico che invade la quotidianità dei personaggi, rendendolo ancora più stupefacente. Se è tutto parte di un disegno più grande la cosa non funziona, c’è poco da fare.
La sceneggiatura – alla quale hanno preso parte penne eccellenti come quella di Steve Kloves e Alvin Sargent (già sceneggiatore di Spider-Man 2 e co-sceneggiatore del 3) – soffre di un accumulo di intuizioni diverse, contrastanti, a volte buone e a volte terribili, e l’insieme è faticosissimo.

Non fare paragoni con Raimi sarebbe saggio, ma è impossibile: dove con un’ottima sintesi nei primi due film si riusciva a raccontare con precisione ed efficacia il dramma dell’eroe, qua semplicemente succedono troppe cose per rendere davvero chiaro il perché di Spider-Man.
La stessa morte di zio Ben sembra più un evento da “scaletta” piuttosto che il motore drammatico della vicenda: con Raimi, la tragedia di aver “causato” la morte di Ben dopo aver oltretutto ferito i suoi sentimenti (“non fare finta di essere mio padre”) è qualcosa di fortissimo, e rende fin da subito l’idea di chi è Spider-Man: un eroe al quale lo spettro di una figura paterna – così autorevole nella sua umiltà – dà non solo la spinta per entrare in azione, ma per cercare la via per essere un essere umano migliore, capace di sacrificare i suoi sogni pur di non nuocere mai più ai suoi cari.

Qui invece lo sapete tutti cosa succede: Spider-Man fa una promessa al padre morente del suo love interest, salvo poi romperla due scene dopo. È chiaro che il senso del personaggio – tra infinite riscritture – si sia perso per strada.
Andrew Garfield è bravissimo, ed è anche una scelta di casting semi-perfetta, ma la scrittura e la regia raramente sanno come valorizzarlo. Nei suoi momenti da Peter Parker ci sentiamo abbastanza spesso vicini a lui, ma risulta respingente nei panni di Spider-Man, nei quali si comporta essenzialmente da bullo per buona parte del tempo. L’idea era quella di rendere Spider-Man più “battutaro” come nelle pagine disegnate, ma l’effetto qui è tremendo (nel sequel viene infatti parecchio aggiustato).

Come spero si intuisca, non è però tutto da buttare: le sequenze tra Peter Parker e la Gwen Stacy di Emma Stone sono mediamente gradevoli, complice l’evidente chimica tra i due attori e la mano di Marc Webb, abile regista di commedie romantiche; alcuni momenti sono anche toccanti, come quello in cui Flash Thompson esprime il suo cordoglio per la perdita di Peter, o quello in cui Peter confessa a suo zio che è un “gran padre”. Si nota che da qualche parte c’è un film vero che fatica a emergere.
The Amazing Spider-Man purtroppo non respira praticamente mai, impegnato tanto nella sua missione di far contenti i fan con la filologia – abbiamo Gwen Stacy prima di Mary Jane, gli spararagnatele e altro ancora – quanto in quella di essere un reboot dal sapore nolaniano, che fa i salti mortali per rendere il tutto “realistico”, incluso inserire una scena veramente idiota in cui delle gru aiutano Spider-Man a oscillare per la città.

Un momento pomposo, inutilmente solenne, emblema di come per tentare di emozionare a questo film serva darsi inutili arie.
In un certo senso si potrebbe dire che si tratti del primo film fatto su misura per venire incontro ai capricci del web, quando la comunità nerd esigeva prodotti più su misura possibili e si cominciava a darle credito.

Un prodotto che non è carne né pesce, ma prova a essere disperatamente entrambe le cose: forse è per questo che è stato archiviato e dimenticato così in fretta, mentre il pubblico abbracciava con entusiasmo un nuovo Spider-Man ad ancor meno anni di distanza di quelli intercorsi tra Maguire e Garfield.
Andrew Garfield comunque non ha colpe, e chissà se lo vedremo riscattarsi in Spider-Man: No Way Home.