La casa: storia dell’esordio da incubo di Sam Raimi
Un gruppo di amici. Una baita nei boschi. Uno strano libro, rilegato in pelle umana e scritto col sangue umano. Un registratore nel quale sono incise delle strane formule che risvegliano furiose entità malefiche. Gli amici vengono posseduti, costretti a uccidersi tra loro: l’entità gioca con le loro emozioni, li irride, è puro male senza apparenti motivazioni e senza freni. E non intende risparmiare nessuno.
La casa – The Evil Dead, per un breve periodo conosciuto come The Book of the Dead – approdava nei cinema di tutto il mondo 40 anni fa, e il pubblico non era pronto. Conosco chi lo vide in sala quando arrivò, e quel che ho sentito spesso dire è che all’epoca fu troppo. Troppo forte, troppo violento, troppo spaventoso.

Proprio per questo motivo non c’era major che fosse disposto a comprarlo, nemmeno la Paramount che all’epoca aveva già avviato il famigerato franchise di Venerdì 13, perché – stando a quanto dissero – “c’è un limite a tutto”.
A quanto pare dobbiamo ringraziare Stephen King. Se oggi è molto più di bocca buona (specie quando si tratta di adattamenti dai suoi lavori), l’autore del Maine negli anni ’80 aveva infatti un certo occhio per il talento quando si trattava di horror, e non mancava mai – qualora lo ritenesse giusto – di fare endorsement a colleghi meno conosciuti. Bastò una sua dichiarazione su Clive Barker (“il futuro dell’horror!”) a garantire a quest’ultimo una (meritatissima) nomea di maestro del genere, come bastò una sua recensione entusiastica a fare la fortuna di un horror indipendente che non somigliava a nulla che si fosse visto prima.

L’esordio di Sam Raimi – girato a soli vent’anni di età – non è solamente uno dei migliori film a basso costo mai realizzati, ma anche uno dei migliori esordi della storia del cinema; la prova di un talento incontenibile, con l’urgenza di esprimersi e di intrattenere il pubblico con ogni mezzo possibile.
Con quarant’anni di storia alle spalle e una schiera di film ancora più truculenti al seguito, fa per caso meno effetto? Bella domanda. Risposta: no. Vorrei poter dire che gli effetti palesemente “al risparmio” facciano sorridere, ma sono solo un tocco di grottesco che rende il tutto – se possibile – ancora più sinistro. Quello che La casa non accenna a perdere è la sua “forza”, una forza da cui è guidato dal primo all’ultimo minuto; la forza della creatività, delle idee, del cinema.

L’implacabilità con cui si muove la camera – a tutti gli effetti un vero e proprio personaggio – è stata emulata da parecchi horror (e non solo) venuti dopo; è il tratto più distintivo e riconoscibile del Raimi prima maniera, ma è solo una parte dell’inventario del regista del Michigan: ci sono anche un’attenzione maniacale al ritmo (incessante) e un senso dell’umorismo spietato, cattivissimo, molto più che nei sequel più smaccatamente comici.
Questo istant cult ebbe infatti due seguiti (La casa II e L’armata delle tenebre), ognuno dei quali giustamente amato dai fan per motivi diversi, ma è conoscendo la storia di questo primo tassello che viene più facile capire la peculiare evoluzione della carriera di Raimi, della forza del suo cinema.
Una super 8 e la “Michigan Mafia”
Inizia tutto a Royal Oak, nel Michigan, quando un Sam Raimi appena tredicenne compra una cinepresa in super 8 con i soldi guadagnati rastrellando foglie per i vicini. Raimi comincia presto a usarla nel giardino di casa con i suoi fratelli Ted (futuro figurante in gran parte dei suoi film) e Ivan (futuro co-sceneggiatore), girando cortometraggi che si rifanno un po’ a tutto l’intrattenimento di cui si nutrono quotidianamente.
I suoi pomeriggi passati di fronte al televisore a guardare vecchi film degli anni ’50 – specialmente Western e commedie – e a sganasciarsi di fronte ai cortometraggi dei Three Stooges (da noi I tre marmittoni), la passione per i fumetti trasmessagli dal compianto fratello maggiore Sander e quella per il baseball (ecco svelato perché avrebbe diretto Gioco d’amore), forgiano infatti in modo molto deciso il suo immaginario.

Nei suoi corti omaggia a chiare lettere proprio i Tre Marmittoni, che per coincidenza sono anche la passione di altri due ragazzini del Michigan: Scott Spiegel, futuro regista, e Bruce Campbell, futuro attore feticcio di Raimi. Proprio in terza media avviene l’incontro decisivo, e Raimi si mette in società con i due formando la Metropolitan Film Group, meglio nota come la “Michigan Mafia”.
Il tempo di iniziare il liceo e nella compagnia entra presto anche Ellen Sandweiss, giovane aspirante attrice che si abbandona da subito allo stile slapstick del collettivo, e che vedremo proprio ne La casa nei panni di Cheryl, sorella di Ash Williams.
Il team c’è, la voglia di fare anche, ma soprattutto non manca un certo spirito “imprenditoriale”, e ai tempi del college avviene anche un altro incontro fondamentale, con un altro nome che sarà sicuramente noto agli estimatori della trilogia di Evil Dead: il futuro produttore Robert “Rip” Tapert. Tapert è un semplice studente di economia, ma una volta diventato amico di Raimi e Campbell viene contagiato dall’entusiasmo per il fare film, partecipando come protagonista a uno dei loro corti più fortunati, The Happy Valley Kid, che viene proiettato nel college di Raimi (la Michigan State University) e ottiene un grande successo.

Nel frattempo Raimi e Campbell cominciano a lavorare come assistenti alla produzione per Verne Nobles, regista con una venerata carriera alle spalle, specie come assistente del grande regista americano George Stevens.
Nobles, nativo di Detroit, aveva lavorato a Los Angeles per buona parte della sua carriera, ma tornò nella sua città di origine e proprio lì decise di aprire una scuola di cinema: nel Michigan, infatti, di cinema se ne faceva poco e ancor meno erano i posti in cui era possibile imparare a farlo, quindi un esperto del settore che potesse guidare le giovani leve era una risorsa non indifferente.
Raimi e Campbell cominciano a farsi realmente le ossa con Nobles, che li istruisce sui rudimenti della settima arte, così oltre all’istinto creativo acquisiscono anche le nozioni tecniche, le regole per realizzare un film “corretto” da un punto di vista cinematografico. Il principio era il solito: conosci le regole per poterle violare. E secondo Nobles, Raimi con quelle regole ha continuato a giocare per tutta la sua carriera, tenendole sempre a mente per poterci girare intorno il più possibile.

Se c’è però un film-manifesto della creatività impellente, irruenta di Sam Raimi è proprio La casa, un horror. Visto il suo background, sicuramente eterogeneo ma dominato soprattutto dall’umorismo slapstick (fatto che dimostrerà soprattutto più avanti), è strano pensare che il suo battesimo del fuoco, il lungometraggio che lo fece conoscere a tutto il mondo, sia uno dei film dell’orrore più spaventosi di sempre.
E infatti Raimi – pur amando sicuramente il genere – non ha mai voluto essere un “regista horror” (come dimostra la sua carriera eclettica), ma in quel mondo trovò due grosse possibilità: quella di dare sfogo al suo estro e quella di inserirsi in un mercato particolarmente proficuo. L’horror, infatti, sul finire degli anni ’70 era il genere più in voga quando si parlava di cinema indipendente.
Film come Non aprite quella porta di Tobe Hooper, L’ultima casa a sinistra e Le colline hanno gli occhi di Wes Craven e Halloween di John Carpenter erano costati cifre bassissime ed erano diventati dei casi internazionali, grazie alla forza delle idee dei loro autori – tutti futuri astri del genere – ma anche grazie alla fame del pubblico per l’orrido.

Sam Raimi, Robert Tapert, Scott Spiegel, Bruce Campbell e compagnia cantante passano svariate serate ai drive-in a guardare horror a basso costo e a prendere appunti, mentre Raimi lavora segretamente a una sceneggiatura intitolata The Book of the Dead, il cui titolo gli viene in mente durante un corso di egittologia al college. L’idea per la storia gli venne pensando al climax del Macbeth di Shakespeare, nel quale in un certo senso la foresta “prende vita”. Nel calderone svariate altre influenze, tra cui spiccavano quelle lovecraftiane.
Il film si farà, ma non senza prove generali.
Within the Woods
Raimi e soci vogliono fare un film, quindi cercano investitori. Il loro biglietto da visita? Un cortometraggio chiamato Clockwork.
Nel corto in questione una donna è seguita e osservata da un tipo losco (Bruce Campbell), che si intrufola in casa sua per aggredirla e va incontro a una brutta fine.
Raimi lo gira per dimostrare a sé stesso e agli altri di potersi muovere in scioltezza anche in territori horror, e la cosa funziona abbastanza da convincere l’avvocato Phillip A. Gillis (figura che li seguì a lungo) a investire su di loro. Quello di cui si rendono presto conto è che hanno bisogno di qualcosa di ancora più ambizioso per dimostrare quali siano le loro reali intenzioni, quindi realizzano Within the Woods (1978), cortometraggio di trenta minuti che ha già in embrione molte delle cose che vedremo ne La casa.
I protagonisti sono Bruce Campbell nel ruolo di “Bruce” ed Ellen Sandweiss in quelli di “Ellen”, una coppia di fidanzatini che si avventura scioccamente in territori maledetti, risvegliando forze oscure. La baita nella quale alloggiano assieme a due altri amici è stata infatti costruita sopra a un cimitero indiano, e Bruce viene posseduto da uno spirito malefico dopo aver rinvenuto uno strano pugnale antico. Curioso infatti come in questo caso, al contrario dei film, il villain posseduto sia proprio Bruce Campbell, mentre sono i suoi amici a dovergli sopravvivere.

Il corto viene fuori piuttosto bene; le proiezioni private lasciano tutti soddisfatti, così arriva il passo successivo: proiettarlo in una sala cinematografica di fronte a un pubblico pagante. Robert Tapert riesce a convincere un esercente a proiettarlo prima dei famigerati “spettacoli di mezzanotte” di The Rocky Horror Picture Show, e il caso vuole che una sera tra il pubblico sia presente un giornalista, che dedica a Within the Woods una recensione entusiastica.
A quel punto la Michigan Mafia attira l’attenzione di Tim Philo, futuro direttore della fotografia de La casa, che – incuriosito dall’articolo sul corto – decide di assistere alla proiezione. Lì fa subito amicizia con Raimi e soci, poi si propone di collaborare con loro, riconoscendone il talento e soprattutto rendendosi conto che l’unica cosa che manca al loro lavoro è un po’ di aiuto tecnico. Il film si avvicina sempre di più.
Gli alberi lo sanno
Dopo un anno passato a mostrare Within the Woods a potenziali investitori – quindi medici, avvocati, familiari e amici – la Michigan Mafia riesce a raccogliere l’agognata cifra di 90,000 dollari. Le riprese de La casa iniziano nel Novembre del 1979 a Morristown, Tennessee.
In realtà si sarebbero dovute tenere nel Michigan, per la precisione a Detroit, ma il team opta per Morristown perché è previsto un inverno freddissimo per il Michigan, mentre il clima del Tennessee pare dover essere più mite. Ovviamente si verifica esattamente il contrario, con uno degli inverni più freddi di sempre in Tennessee e uno dei più miti in Michigan.

La troupe gira a temperature proibitive, e oltretutto le riprese devono occasionalmente interrompersi per permettere a Raimi, Tapert e soci di andare a raccogliere altri soldi. È una lavorazione travagliata, a tratti delirante – famoso l’episodio in cui tutto il team fumò marijuana per emulare il Jack Nicholson di Easy Rider, con risultati a quanto pare molto meno brillanti – e a tratti sofferta, ma è anche una prova dalla quale nessuno ha intenzione di tirarsi indietro.
Con mezzi di fortuna e con tutte le condizioni avverse possibili, il team de La casa scrive inconsapevolmente pagine di storia del cinema horror, a cominciare dal Necronomicon Ex Mortis, il “libro dei morti” del titolo.

Il libro, realizzato come tutti i leggendari effetti pratici di questo film da Tom Sullivan, da copione dovrebbe semplicemente avere un aspetto logoro e sinistro, ma a Sullivan viene in mente l’idea di una copertina rilegata in pelle umana: “una delle cose più disturbanti e disgustose che avevo letto sulle atrocità dei nazisti era che avessero realizzato, tra le altre cose, dei paralumi e delle copertine di libri in pelle umana”. Da lì l’idea, che a Raimi piace e che viene rappresentata mettendo in copertina una “faccia”, proprio per marcare il fatto che si tratti di pelle umana.
Per ottenere quel disgustoso effetto, Sullivan realizza il calco del viso di alcuni membri della troupe, e su ognuno di questi calchi appone più e più strati di pelle finta. Una volta ottenute queste maschere di pelle, Sullivan le sovrappone e le schiaccia sopra a un cartone ondulato.

Se La casa può quindi insegnare tanto su come realizzare effetti visivi spaventosi con poco, è ancor più leggendaria la mole di riprese iconiche ottenute con i mezzi più grezzi a disposizione. Qualunque fan di questo film a cui sia interessata un minimo la storia della sua realizzazione sa della “shaky cam”, strumento costruito da Raimi e dal direttore della fotografia Tim Philo per sopperire alla mancanza di una steadycam, che ovviamente non potevano permettersi.
La shaky cam era strutturata più o meno così: la camera veniva fissata a metà di una trave di legno lunga 55 centimetri, e alle due estremità della trave erano invece fissate delle maniglie molto resistenti, quindi a manovrarla bisognava essere in due, un operatore per ogni estremità. Una volta impugnata la shaky cam, i due operatori (che erano spesso proprio Raimi e Philo) cominciavano a correre come dannati, ed è così che sono state ottenute le famose riprese della “forza” malefica che si aggira furiosa nei boschi.

I fratelli Coen, già collaboratori e futuri coinquilini di Raimi assieme a Frances McDormand (ne parlammo qui), rubarono molte di queste tecniche per i loro primi due film, Blood Simple e Arizona Junior, specie il secondo, che comprende più di un momento inequivocabilmente raimiano in cui viene impiegata proprio la shaky cam:
That’s Enterntainment
Le invenzioni tecniche, le idee folli e l’energia creativa erano al servizio di un solo fattore fondamentale: l’intrattenimento. Come già accennato, l’etichetta di regista horror a Raimi interessava poco, la sua missione era quella di “intrattenere il pubblico”, vale a dire ingannarlo, sorprenderlo, prenderlo per il colletto e costringerlo a immergersi nell’azione.
A incidere fu la sua passione per l’illusionismo. Infatti il giovanissimo Raimi, assieme al suo assistente Bruce Campbell, si esibiva come mago alle feste, e con gli anni divenne sempre più esperto e sempre più abile nel costruire i suoi trucchi.

Tutto questo si riversò nella sua regia: sul set de La casa capitava infatti che volesse girare certe sequenze solamente perché si reggevano su trucchi da illusionista, o più semplicemente perché l’effetto visivo sarebbe stato così stupefacente da far interrogare il pubblico su come avessero fatto. I suoi assistenti erano perplessi: “ma perché non pensi a raccontare la storia?”, gli chiedevano, al che lui rispondeva “no, dobbiamo sorprendere lo spettatore prima di tutto”.
In svariate interviste realizzate nella prima parte della sua carriera gli si sente sempre ripetere: “la cosa peggiore che puoi fare è annoiare il pubblico”. La noia era il grande nemico da sconfiggere, e il film non poteva fermarsi nemmeno un attimo: proprio per questo, molte delle sue idee più singolari per La casa erano temute dal resto del team, che gli chiedeva “ma non hai paura che questa cosa risulti troppo comica?”, per poi sentirsi rispondere “non importa, finché il pubblico non si annoia”.

Il segreto de La casa, puro cinema in movimento, è proprio questo: non c’è tempo per pensare, non c’è tempo per riflettere sulla coerenza della trama. È l’orrore puro che ci assale, che non molla la presa nemmeno un attimo, che prova con ogni mezzo offerto dal cinema a regalare l’esperienza più devastante, più spaventosa possibile. Il numero di un mago che sa come divertirci, come depistarci e come sconvolgerci.
“Mi piacciono gli horror. Non solo perché sono spaventosi e divertenti, ma perché offrono a un regista un mondo vastissimo nel quale sperimentare ogni possibile tecnica cinematografica, che sia visiva, sonora… perché ti costringono ad addentrarti in un mondo che noi esseri umani non conosciamo, il mondo degli anfratti più bui e nascosti”. Queste le parole di Sam Raimi, autore per cui il cinema è prima di ogni cosa “un mezzo per controllare lo spazio e il tempo, i meccanismi magici dell’universo”. Il trucco da illusionista per eccellenza.
“Perché non l’avete visto… e perché dovreste”

Eccovi infine un estratto dalla recensione scritta da Stephen King per The Twilight Zone Magazine, intitolata “THE EVIL DEAD: Why you haven’t seen it… and why you ought to” (La casa: Perché non lo avete visto… e perché dovreste):
“Quando ho conosciuto Sam Raimi al festival di Cannes nel maggio del 1982, quello che ho pensato è che questo tipo poteva essere tre cose: un cameriere, uno studente americano scappato di casa o un genio. Non era un cameriere; Raimi ha poi finito il liceo qualche anno fa, anche se ha quel tipo di aspetto per il quale c’è il rischio che i baristi gli chiedano il documento fino almeno ai trentacinque anni. Che sia un genio è ancora tutto da dimostrare; che abbia realizzato l’horror più ferocemente originale del 1982 è per me fuori da ogni dubbio. Il problema, però, è che potreste non vederlo mai.”
Ma sappiamo bene com’è andata, e per questo – tra le altre cose – dobbiamo ringraziare il re del brivido.