Guida alla saga de La bambola assassina

Con all’attivo sette film e con una serie televisiva all’orizzonte, quella di Chucky è una saga longeva con due grosse costanti: la penna di Don Mancini – sceneggiatore fin dal primo capitolo, regista dal quinto in poi – e la voce di Brad Dourif per il famigerato bambolotto assassino.

Se Dourif è un attore navigato e ha una filmografia bella vasta, Mancini ha invece dedicato praticamente tutta la sua carriera (con pochissime eccezioni) solo a Chucky. Questo suo amore per il personaggio ha fatto la fortuna del franchise, decisamente tra i più divertenti e iconici della storia dell’horror moderno.

Mancini tenta sempre di fare un film diverso da quello prima, rimanendo concentrato sulle trovate orrorifiche e di suspense e reinventandosi quando necessario: si passa infatti dal thriller/horror del primo capitolo allo slasher più smaccato del secondo e del terzo; si arriva alla black comedy postmoderna del quarto e del quinto e infine, con gli ultimi due capitoli direct-to-video, si decide di giocare con tutti i registri possibili.

A stimolare le idee deve essere senza dubbio il villain: non la classica “bambola horror”, ma una con una personalità molto più divertente e caustica. Non una Annabelle (che peraltro somiglia parecchio a Glen, il figlio di Chucky), per intenderci.

Ma Chucky è più divertente anche di molti suoi colleghi in carne e ossa: metti Michael Myers in una stanza e otterrai molto probabilmente uno slasher qualunque; mettici Chucky e – vuoi o non vuoi, vista la sua stazza – dovrai inventarti per forza dei modi creativi per farlo uccidere. C’è anche qualcosa di genuinamente inquietante in un corpo minuscolo animato da una furia omicida così incontenibile, almeno nei primi capitoli. Insomma, tutti gli elementi erano al loro posto, e la creazione di Mancini non poté che rimanere impressa da subito.

Ripercorriamo insieme le varie tappe di una delle saghe più popolari e amate tra i fan dell’horror.

La bambola assassina (1988), di Tom Holland

È il 1988 e i film sulle bambole assassine esistono già da un po’, ma ne arriva con delle intuizioni più fortunate del solito. Innanzitutto il villain è particolarmente più incisivo: Chucky ha il giusto design, è animato benissimo, è sboccato e ha la vociaccia schizzata di Dourif; tutti elementi che fin da subito fanno intuire ai produttori che ci sono i presupposti per una lunga serie di film. Questo thriller a tinte soprannaturali finisce infatti col fermo immagine di una porta aperta, come a dire “non è finita qua”, e il sequel viene scritto e girato non molto tempo dopo.

Chucky in origine è Charles Lee Ray, conosciuto come “lo strangolatore del lago”. Il film si apre proprio con la fuga di Ray dalla polizia, abbandonato dal suo complice e rifugiatosi in un negozio di giocattoli in piena notte. Il detective Mike Norris (Chris Sarandon) lo insegue e gli spara, riducendolo in fin di vita. Proprio mentre è sul punto di morire, Ray decide di trasferire la sua anima in un altro corpo, memore delle sue lezioni di voodoo: il problema è che non c’è nessun corpo nelle vicinanze. Dovrà accontentarsi di un bambolotto, lo stesso che poco dopo verrà regalato al piccolo Andy Barclay dalla sua amorevole mamma Karen (Catherine Hicks).

Il piccolo Andy è contentissimo perché voleva da tempo un bambolotto “Good Guy”, che come ci viene mostrato nelle reclame che passano in TV è “tuo amico fino alla fine”, e dal momento in cui ne entra in possesso lo tiene sempre con sé. Dice anche di parlarci: nulla di strano, per un bambino. Il fatto è che le presunte frasi del bambolotto da lui riportate suonano un po’ troppo “specifiche” per essere inventate.

Una sera la migliore amica di sua madre viene a fargli da babysitter e muore cadendo dalla finestra. In seguito Andy viene condotto dal bambolotto a casa dell’ex complice di Charles Lee Ray, che finisce ucciso. Andy insiste a dire che è stata tutta un’idea di Chucky, e a quel punto la polizia decide che è squilibrato e va tenuto sotto stretta osservazione, quindi viene spedito in un ospedale psichiatrico. Il dubbio comincia lentamente a insinuarsi nella mente di sua madre Karen, che scopre finalmente la verità nella bellissima scena di suspense in cui trova le pile del bambolotto ancora nella confezione: a quel punto si rende conto che Chucky ha funzionato per tutto questo tempo senza batterie e che sì, è vivo.

È la scena madre, e infatti il film in origine avrebbe dovuto intitolarsi Batteries Not Included.

Il rapporto ambiguo tra Andy e il bambolotto era pensato inizialmente da Mancini per essere così morboso da lasciare un velo di dubbio sull’innocenza del piccolo protagonista. A un certo punto il titolo del copione divenne Blood Buddies, e in origine non era prevista la presenza di nessun serial killer dedito al voodoo: semplicemente, il Good Guy con cui giocava Andy era un bambolotto progettato per perdere sangue finto qualora si fosse “ferito”. A dargli vita sarebbe stato il sangue di Andy misto al suo, e ad animare la sua furia omicida sarebbe stata la rabbia repressa di Andy.

Le varie riscritture eliminarono tutte queste idee e alleggerirono il rapporto tra i due, e fin qui tanto di guadagnato: piuttosto che l’ennesimo bambino inquietante ne funziona meglio uno inerme, troppo piccolo per capire da subito di essere in balia di una forza sinistra. L’obiettivo del bambolotto diventa quello di trasferire la sua anima in un corpo umano, e scoprirà di poterlo fare solamente con quello della prima persona a cui ha rivelato la propria identità, quindi proprio Andy: sarà questo fattore a legare i due personaggi anche nei sequel a venire.

Inizialmente, benché Brad Dourif avesse già girato le sue scene come Charles Lee Ray, a doppiare il bambolotto venne chiamata la grande attrice Jessica Walter (purtroppo scomparsa di recente), che in fatto di inquietudine sapeva effettivamente il fatto suo: nel bellissimo esordio alla regia di Clint Eastwood, Brivido nella notte, interpretava una villain schizzata e davvero spaventosa.

A quanto pare però la sua voce non funzionava granché nei momenti più ironici, e quindi in sala di doppiaggio venne chiamato Dourif, che non solo si rivelò perfetto ma che non avrebbe abbandonato il personaggio in nessuno dei capitoli successivi, remake escluso.

La bambola assassina è un primo capitolo coi fiocchi, in cui tutti gli elementi sono al posto giusto: gli omicidi, meno cruenti che nei film successivi, già vengono pensati con inventiva, mentre la durata breve (i famosi, compianti 80 minuti), la grossa quantità di idee e il fantastico comparto tecnico garantiscono all’insieme un ottimo ritmo e un’ottima resa. La regia di Tom Holland è infatti attenta ed elegante, così come è sofisticata animazione dal vero della bambola, impressionante per l’epoca e ancora oggi di grande effetto.

La suspense tiene bene per tutta la durata, e il film evita sempre con cura di scadere nel ridicolo involontario: le risate che scaturiscono dalla goffaggine della bambola sono dovute a un tocco di grottesco assolutamente voluto, e Chucky è da subito divertente, implacabile e crudele come pochi. Un classico.

La bambola assassina 2 (1990), di John Lafia

Chucky torna in vita per dare di nuovo la caccia ad Andy Barclay, che ora vive con una famiglia adottiva. Naturalmente lo trova, e fa di tutto per accaparrarsi la sua anima, facendolo di nuovo passare per l’autore dei suoi efferati delitti.

Rimane Mancini alla scrittura, mentre a Tom Holland subentra John Lafia come regista. Il secondo capitolo non alza particolarmente il tiro a livello di trama, ma ha una premessa sensata grazie alla quale Mancini riesce di nuovo a costruire una suspense più che discreta. Rispetto al prototipo è più predominante il ruolo di Chucky, qui ancor più ironico e artefice di omicidi più crudeli e ben congegnati.

Ad Alex Vincent viene affiancata la giovane Christine Elise, mentre nel cast di supporto subentrano i sempre ottimi Gerrit Graham (Il fantasma del palcoscenico) e Jenny Agutter (Un lupo mannaro americano a Londra). Un bis graditissimo con una resa dei conti finale che azzecca in pieno il setting: la fabbrica di giocattoli dove è stato assemblato Chucky, trasformata abilmente in un labirinto degli orrori.

Un’avventura in più per Chucky: nulla di trascendentale, ma si guarda con piacere.

La bambola assassina 3 (1991), di Jack Bender

Dopo il successo del secondo film, la Universal diede immediatamente il via libera a un terzo capitolo, che doveva essere scritto e realizzato nel giro di poco. Purtroppo di questa fretta il terzo Bambola assassina ne risente, classificandosi in scioltezza come il più fiacco della serie.

Certo è saggia l’idea di Mancini di raccontare un Andy Barclay cresciuto e alle prese con l’accademia militare, quantomeno per differenziarsi dai primi due capitoli; peccato però che il ritmo sia altalenante, mentre appare stanca l’idea di far manipolare un nuovo bambino a Chucky, quasi in contraddizione con la buona intuizione di portare Andy in un contesto più adulto.

A rendere il tutto più sfizioso è sicuramente un Chucky sempre più carismatico, scorretto e crudele: notevole, tra le altre, la sequenza in cui sostituisce le cartucce di vernice con proiettili veri prima di un’esercitazione militare. I personaggi adolescenti al contrario sono poco incisivi, incluso lo stesso Andy, ma quando mai questo ha rappresentato un problema in uno slasher?

Curiose le musiche, che per un film del ’91 suonano più vecchie almeno di dieci anni (mentre quelle di Graeme Revell per il film precedente erano ottime). Un capitolo guardabile ma decisamente minore.

La sposa di Chucky (1998), di Ronny Yu

Il punto di svolta del franchise, la mossa con cui Don Mancini svecchia la sua creatura in maniera esemplare, emancipandola dal rapporto con Andy per proiettarla in una cornice postmoderna, pregna di un citazionismo che viene dritto dall’immaginario horror di cui il suo autore si nutriva in gioventù. La sposa di Chucky (Bride of Chucky), il cui titolo è un ovvio omaggio a La moglie di Frankenstein (Bride of Frankenstein), dona a Chucky un nuovo look – più ruvido – e perfino una consorte, la sposa del titolo, Tiffany, doppiata da una perfetta Jennifer Tilly.

Tiffany è l’ex fiamma di Charles Lee Ray, anche lei col pallino dell’omicidio, e decide di trovare il bambolotto fatto a pezzi nel precedente film, ricucirlo e ridargli vita attraverso un rito vooodoo. Chucky torna effettivamente in vita, e dopo una serie di sfortunati eventi trasforma anche lei in una bambola assassina. L’obiettivo di entrambi diventa quindi quello di trovare due corpi umani in cui trasferire le proprie anime, e a quel punto prenderanno di mira una giovane coppia alle prese con una fuga romantica.

La sposa di Chucky è mani basse il capitolo migliore della saga; ha la regia migliore (dell’ottimo Ronny Yu, in seguito regista di Freddy vs. Jason), gli omici migliori e l’impiego più gustoso dell’umorismo macabro già presente nei primi tre film.

Il film – ed è il motivo per cui molti fan non lo amano – è una commedia horror a tutti gli effetti, ma il suo senso dell’umorismo è direttamente proporzionale all’energia che mette nei momenti prettamente d’orrore, mai timidi, pregni di un gore che vuole impressionare piuttosto che cercare la risata. Quando i due bambolotti pianificano un omicidio lo fanno con un’inventiva che diverte, ma quando passano all’azione lo fanno con un gusto sadico mai stemperato, ma piuttosto esasperato per evidenziare la loro follia. Sono i loro momenti fuori dalle uccisioni a divertire, grazie a battute particolarmente ispirate e in generale a un umorismo dark centratissimo.

La piena consacrazione di Chucky a icona pop, uno degli horror più divertenti degli anni ’90 e un appuntamento irrinunciabile per gli appassionati del genere, che si troveranno davanti a un film denso, pregno di rimandi e di suggestioni. E Chucky col look alla Frankenstein è impagabile.

Il figlio di Chucky (2004), di Don Mancini

Don Mancini esordisce alla regia, i soldi sono decisamente meno (12 milioni di dollari di budget contro i 25 del capitolo precedente) e si prova a spacciare la Romania per Los Angeles.

I segni di una produzione più modesta ci sono tutti, mentre la commedia è spinta parecchio in là, sfociando nel meta. In questo capitolo – similmente ai sequel di Scream – scopriamo infatti che a Hollywood vogliono realizzare un film sulla “leggenda metropolitana” di Chucky e Tiffany, con tra gli interpreti proprio Jennifer Tilly. La sposa di Chucky si concludeva con Tiffany che dava alla luce un figlio; ne Il figlio di Chucky troviamo questo figlio, Shitface, cresciuto e inaspettatamente buono e sensibile.

Shitface viene sfruttato come fenomeno da baraccone per degli squallidi spettacoli, questo finché non decide di scappare e andare alla ricerca dei suoi genitori. Li trova proprio a Hollywood, quindi li resuscita, dando il via a una nuova spirale di omicidi efferati.

Per la prima volta nella saga affiorano tematiche queer: Chucky e Tiffany non sanno infatti decidersi circa il genere d’appartenenza di Shitface. Lui decide di chiamarlo Glen, lei di chiamarla Glenda; un chiaro omaggio a Ed Wood (di lui parliamo approfonditamente qui) e al suo esordio Glen or Glenda.

Il personaggio di Glen/Glenda può essere quindi definito non binario, almeno finché non scopriamo che possiede effettivamente due personalità distinte: Glen è mite e odia la violenza; Glenda incarna la furia omicida dei suoi genitori.

Mancini alla sua opera prima da regista si toglie più di uno sfizio: gioca col genere come un bambino, facendo a tratti sul serio (belle alcune sequenze horror) ma per lo più decostruendo i cliché; cita apertamente Brian De Palma e non contento chiama anche Pino Donaggio a comporre le musiche (splendide, peraltro); chiama John Waters per un piccolo (memorabile) ruolo e gli dedica la morte più bella.

Abbiamo più di un colpo di classe, dal prologo davvero energico e ben girato a un paio di gag da antologia (Chucky che si masturba sfogliando Fangoria, o che uccide Britney Spears), ma Mancini – sicuramente talentuoso – è un regista ancora acerbo, e alla fine il film nel complesso è più debole del (bellissimo) predecessore, pur rimanendo parecchio divertente. Anche qui Chucky non si risparmia, risultando esilarante nei panni del padre di famiglia reazionario col pallino dell’omicidio.

La maledizione di Chucky (2013), di Don Mancini

Si passa dalla sala all’home video e i soldi sono molti, molti meno (2.8 milioni di dollari), ma la vena creativa di Mancini non perde colpi. Arriva una nuova protagonista, Nica (interpretata da Fiona Dourif, figlia di Brad), ragazza disabile con un legame misterioso con Chucky. Nica naturalmente non ha idea che la morte di sua madre sia stata opera del bambolotto misteriosamente arrivatole per posta, e quando sua sorella viene a farle visita – assieme a suo marito e a sua figlia –, nella sua casa cominciano a verificarsi strani fenomeni.

La maledizione di Chucky è probabilmente nell’olimpo dei migliori sequel direct to video di sempre: Don Mancini matura come regista, sfrutta appieno le possibilità offerte dal budget ridottissimo e realizza quello che è probabilmente il capitolo più elegante, che si prende i suoi tempi per far montare una tensione non indifferente (in particolare nella scena della cena, davvero magistrale).

Spiace solo che il nostro si sia sentito in difetto nell’aver portato la saga su territori più comedy con i due capitoli precedenti, perché in realtà la commedia dark è la dimensione su cui Chucky si appoggia meglio, ma l’ironia c’è in parte anche qua, anche se l’idea è chiaramente quella di un ritorno ai toni più horror del primo capitolo, con Chucky che oltretutto abbandona per buona parte della durata il suo look hardcore per tornare a quello classico.

Per la stragrande maggioranza del tempo il film funziona molto bene, ma appaiono posticci i flashback sul passato di Chucky, che annaspano nel tentativo di giustificare l’esistenza di un sesto capitolo, soffocando un po’ il potenziale del terzo atto. A parte questo, uno slasher ricco di invenzioni, elegante e di grande atmosfera. Fosse uscito in sala avrebbe fatto impallidire la concorrenza.

Il culto di Chucky (2017), di Don Mancini

Per certi versi è meglio del capitolo precedente (si sale anche un bel po’ col budget, stavolta di 6 milioni e mezzo di dollari), tra commedia più presente, omicidi più ispirati e una messa in scena parecchio ricercata considerato il tipo di produzione. C’è la bella idea di Chucky che è capace di sdoppiarsi (che Mancini ebbe in origine per il terzo film), dando vita a più versioni di sé in un delirio comedy horror degno del quarto e del quinto capitolo.

Tornano Alex Vincent nel ruolo di Andy Barclay e Jennifer Tilly in quello di Tiffany, e se le scarse doti recitative del primo intaccano purtroppo quella che era una buona idea di base (un Andy Barclay traumatizzato e con la sola missione di far fuori Chucky definitivamente), il ritorno di Tiffany è poco più di una strizzatina ruffiana verso i fan; il fatto è però che Chucky è sempre divertentissimo, e a supporto delle sue efferatezze c’è un’atmosfera creata veramente con gusto.

Fiona Dourif ci crede parecchio e si carica il film sulle spalle, ma forse con il suo personaggio ci si spinge troppo in là verso il finale. Fatto sta che quel che vedrete qui sarà alla base della serie Chucky, sempre curata da Don Mancini e con gli stessi interpreti. Noi non vediamo l’ora.

BONUS TRACK: Il remake

La bambola assassina (2019), di Lars Klevberg

Chi scrive è entrato in sala a vedere il remake de La bambola assassina con la massima diffidenza, e si sbagliava. Il voodoo abbandonato in favore dell’intelligenza artificiale sembrava infatti un segnale preoccupante, mentre è la salvezza del film: misurarsi con il look iconico della saga originale e con la verve del personaggio era una missione suicida, quindi il remake prende altre strade e lo fa con cognizione di causa.

I bambolotti Good Guy diventano Buddi, in questo caso dei pupazzoni dotati di intelligenza artificiale e progettati per ubbidire ai comandi vocali. Succede poi che in Vietnam, in una fabbrica dove vengono progettati questi bambolotti, un dipendente frustrato decide di fabbricare un modello dai comandi tutti sballati, privato dagli inibitori di violenza, e in seguito di togliersi la vita. Il bambolotto difettato arriverà nelle mani di Andy Barclay tramite sua madre Karen (Aubrey Plaza), e il resto è storia. Quel che cambia è che Andy non è più un bambino ma va affacciandosi verso l’adolescenza, quindi è un personaggio molto più attivo e meno manipolabile.

Il film di Lars Klevberg è praticamente una puntata slasher di Black Mirror, e trova il modo di essere creativo con un immaginario completamente diverso da quello messo su da Don Mancini (che odia questo film per principio, dato che è stato fatto mentre la sua saga era ancora in corso). Chucky non ha più una personalità “umana”, quindi sono il mondo dei protagonisti e l’impianto generale a dover essere più forti, e così è. Gli omicidi poi sono crudissimi.

Fa effettivamente schifo il look di questo nuovo Chucky (come vedete nella foto qui sopra), ma già il fatto che sia stato realizzato quasi interamente con effetti pratici è già qualcosa, e comunque – ripetiamo – non è sulle fattezze o la verve del suo protagonista che puntano gli autori. A sostituire Brad Dourif c’è nientemeno che Mark Hamill, e la cosa sarebbe fantastica se solo non fosse inutile: questo Chucky non è posseduto dallo spirito di un serial killer, ma è un robot, quindi il fatto che abbia una voce così vissuta e caratteristica ha poco senso. Ma come dicevamo, poco importa.

Il fatto è che è un film con cui ci si diverte da matti, e che sa quello che fa. La regia e la fotografia sono curatissime, l’umorismo dark è spinto a mille e – pur trattandosi di un film molto moderno nell’impianto – si recuperano sensazioni da film horror per ragazzi anni ’80, con dei protagonisti pre-adolescenti alle prese con la minaccia di turno, uniti nello spavento con divertita complicità.

Diciamo che si nota la volontà di cavalcare la moda di Stranger Things o dell’It del 2017 (il produttore è lo stesso), ma almeno invece di aderire in maniera blanda alla formula ci si gioca con energia e inventiva, senza ambientare la vicenda negli anni ’80 ma ricordando lo stesso un certo modo di fare horror, aggiornandolo ad oggi senza ammiccare. Una chicca ingiustamente sottovalutata, inspiegabilmente odiata dai fanatici del genere.

Eddie Da Silva

Killer professionista in pensione.

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