Double Team: il buddy movie con Jean-Claude Van Damme e Dennis Rodman
C’è stato un bellissimo tempo in cui il mondo dello sport ancora non si prendeva così maledettamente sul serio, abbastanza da poter vedere Shaquille O’Neal mettersi un costume da supereroe così brutto da far investire il film da tale oscurantismo che tutt’oggi si tende a non citarlo mai come il primo supereroe afroamericano al cinema che invece è.

Prima che arrivassero gli sponsor coi loro serissimi e pomposi “Just Do It/Never Give Up/Never Back Down/Boia Chi Molla” potevamo ancora assistere a uno dei volti della franchigia NBA, simbolo degli anni ‘90 (Dennis Rodman), recitare insieme all’action man più iconico dello stesso decennio (Jean-Claude Van Damme), e un’ex stella che faceva parlare di sé per i suoi successi su un ring di pugilato che al box office (Mickey Rourke) in un action ambientato a Roma, con lo scontro finale tra Van Damme e Rourke nientepopodimeno che al Colosseo, forse per omaggiare lo scontro tra Chuck Norris e Bruce Lee, idolo di Van Damme, su L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente.
Nel 1997 Dennis Rodman era già Dennis Rodman da un pezzo: aveva dieci anni passati in NBA e tre vittorie del campionato nel palmarès, era considerato da anni uno dei migliori cestisti d’America, si era fatto il suo iconico capello biondo ispirato al Wesley Snipes di Demolition Man, e aveva collezionato abbastanza multe da superare il PIL della Somalia. Ma, soprattutto, formava con Michael Jordan e Scottie Pippen il “Magic Trio” dei Chicago Bulls: la stampa amava dargli addosso ritenendolo la causa dei problemi della squadra, e aveva sul curriculum già un bel po’ di pazzie.
Nonostante un flirt con Madonna, il Dennis Rodman extra-campo doveva in realtà ancora esplodere sul serio; le sue imprese fuori dal parquet non erano ancora leggendarie quanto quelle in campo. Ma ecco che dal 1997 Rodman si rifece con gli interessi: dalla parentesi nel mondo del wrestling con Hulk Hogan, alla storia con Carmen Electra, alle famigerate 88 ore di paura e delirio a Las Vegas che quest’anno diventeranno pure un film scritto da Phil Lord e Chris Miller. Il tutto con altri due titoli vinti coi Bulls. Tra il 1997 e il 1998 Rodman era ovunque: wrestling, basket, Las Vegas, riviste scandalistiche, e ora finalmente anche al cinema.
Tra l’altro è abbastanza ironico constatare come le scelte cinematografiche del “Magic Trio” dei Bulls del biennio 1996/97 rappresentassero in tutto e per tutto la loro immagine percepita dai media: se Scottie Pippen oltre a un cameo su ER non aveva partecipato a niente di rilevante in quanto archetipo vivente dell’underrated, Michael Jordan su Space Jam salvava i Looney Tunes, l’universo, e il talento perduto di tutte le star NBA – e di conseguenza l’NBA stessa – con un super spot pubblicitario di 90 minuti diventato un instant classic per intere generazioni nonché principale mezzo propagandistico dell’NBA degli anni ’90. Dennis Rodman, invece, collezionava Double Team, un action scemo e discretamente tamarro fatto di botte ed esplosioni, che chiude lui stesso con un per nulla autoreferenziale “Mi ci gioco le palle che daranno di nuovo la colpa a me, chissà quanto mi faranno pagare di multa” alla fine del film, guardando il Colosseo più distrutto del solito (anche) per colpa sua, nonostante pochi minuti prima avesse usato la sua forza per salvare i suoi compari da un’esplosione usando un distributore di Coca Cola (!):
Jean-Claude Van Damme invece era al crepuscolo del suo periodo d’oro: aveva da poco coronato il suo sogno di dirigere e scrivere un film (insieme a Frank Dux, il tizio che Van Damme stesso aveva interpretato su Senza Esclusione Di Colpi) oltre che interpretarlo (insieme a Roger Moore!), consumava 10.000 dollari di cocaina alla settimana (parole sue), e non aveva mai floppato al box office. Dunque, cosa poteva mai andare storto con Double Team?
Aggiungi a tutto questo Mickey Rourke, all’epoca cronologicamente troppo lontano sia sa 9 Settimane e Mezzo che da The Wrestler, ormai più pugile che attore, in una fase della sua carriera dove per sua stessa ammissione aveva perso rispetto per sé stesso come attore (abbastanza da partecipare nello stesso anno a 9 Settimane e Mezzo II), tanto che viene da chiedersi se la morte del suo personaggio su Double Team, che esce di scena pestando una mina anti-uomo a forma di croce (!) mentre al tempo stesso viene sbranato da una tigre (!!) con una schitarrata elettrica di sottofondo (!!!) non se la sia scritta da solo per auto-flagellarsi ulteriormente.
Meno male che Rodman c’è
Van Damme è il solito supereroe che prende a calci tutto, Rourke fa praticamente John Travolta su Face/Offma in chiave villain, che fa cose cattive tipo far esplodere un’autobomba a Ostiense con la classica esplosione alle spalle scandita dal ralenti con la Piramide Cestia sullo sfondo (e da romano non mi spiego come un’immagine del genere non sia diventato un classico della cultura pop cittadina come Audrey Hepburn e Gregory Peck in vespa o Anita Ekberg nella Fontana di Trevi), mentre Rodman fa Yaz, spalla comica di Van Damme e trafficante d’armi tutto matto che ama cambiare colore di capelli in ogni scena e fare così tante battute a doppio senso sportivo (“Odio allenarmi”/”La miglior difesa è l‘attacco”/”Gli attaccanti si prendono la gloria, ma sono i difensori a vincere le partite” e tante altre frasi poco autoreferenziali) che viene da chiedersi – chissà perché – se non ci sia un po’ di basket nel passato di Yaz.

Double Team è due film diversi incollati insieme: da una parte è un classico action semi-serio e semi-fantascientifico con Van Damme come semi-risposta a Face/Off, dall’altra è un film dove Van Damme si mimetizza a piazza Navona truccato da tossico di piazza Gasparri, dove nei sotterranei di Roma ci sono dei cyber-frati hacker che raccolgono informazioni segrete da 500 anni (!), e con un finale che anticipa di undici anni Indiana Jones che sopravvive alla bomba atomica chiudendosi in un frigo (scena che io difenderò sempre dai nerd e dalla cancel culture). Non si sa quale delle due cose preferisce essere; si sa solo quale delle due risulti più interessante per salvare l’altra (spoiler: la seconda).

E pensare che Rodman fu massacrato dai Golden Raspberry Award AKA i Razzie Award AKA Quei Premi Che Non Fanno Mai Ridere Award, che ignoravano il fatto che senza Dennis Rodman il film avrebbe avuto ancor meno senso di esistere, lasciando alle sole – poche ma buone – follie di Mickey Rourke e alcune adorabili scemenze di sceneggiatura sparse qua e là (tipo i già citati cyber-frati) il compito di salvare il film dal dimenticatoio. Cioè, il film nel dimenticatoio c’è finito lo stesso, ma meglio un dimenticatoio con Dennis Rodman che fa a botte a via Giolitti con one-liner autoreferenziali ( “L’ultimo che ha scherzato sui miei capelli ha ancora la testa ficcata nel culo”) che il contrario.

Il resto è una carrellata di divertenti ingenuità su cui giusto noi italiani/romani possiamo puntualizzare per farci una risata (Piazza del Popolo-Ostiense in 20 secondi di macchina? Termini pulita?) e altre più a portata di tutti, tipo il Colosseo che palesemente non è il Colosseo – e non serve essere romani per capirlo – ma un’arena romana a caso in Europa, perché tanto gli americani figurati se se ne accorgono.

Con Double Game Van Damme collezionerà il suo primo flop, entrerà in riabilitazione, e finirà la sua fase d’oro (tra le tre cose non c’è alcun nesso, ma chissà…), Rourke dovrà ancora aspettare qualche anno per tornare sulla cresta dell’onda, mentre Rodman vincerà altri due titoli coi Bulls e vivrà il biennio più spericolato di sempre tra WCW, Carmen Electra, e Las Vegas, e reciterà in un altro film (Super Agente Simon del 1999, passato alla storia come l’undicesimo film a centrare lo 0% su Rotten Tomatoes) per poi ritirarsi definitivamente dal basket nel 2006 e dedicarsi ad attività più in linea con la sua fama extra-parquet, tipo diventare amicone di Kim Jong-un anticipando (o ispirando?) quello che James Franco sarà su The Interview, in tutti i sensi (riguardo la sua amicizia con Kim Jong-un Rodman disse “Stavamo cenando ed eravamo ubriachi, quando Kim iniziò a cantare, e non avevo idea di cosa dicesse, finché ad un certo punto arrivarono 18 ragazze con la colonna sonora del telefilm Dallas. Ci siamo sentiti spesso e mi ha sempre trattato come uno di famiglia, anche se quando sono rientrato negli USA mi sono accorto che mi controllavano il telefono. Da allora ne uso uno vecchio e sto molto attento”).
