Com’erano gli X-Men originali di Stan Lee e Jack Kirby?
Oggi suonerà strano, ma gli X-Men ai tempi furono un grosso flop, sicuramente tra i personaggi meno popolari della Marvel degli anni ‘60. L’idea stessa dei mutanti aveva alla base una scelta dettata da un po’ di sana pigrizia nel trovare nuove soluzioni, piuttosto che nuove intuizioni (come disse Stan Lee, “Non potevo far mordere tutti da ragni radioattivi o colpirli tutti coi raggi gamma, così ho fatto la cosa più codarda e mi sono detto: ma se fossero nati con dei poteri e basta?”).

Se Lee creò il plot dei mutanti e le successive tematiche sull’intolleranza, la mente di Jack Kirby creò il Professor X e l’Istituto Xavier per l’addestramento dei poteri mutanti. E inizialmente la serie doveva chiamarsi proprio “I Mutanti”, prima che Martin Goodman – l’editore della Marvel – spingesse Lee a trovare un altro nome, ricordandogli che “il pubblico non ha idea di che cavolo sia un mutante“. In effetti l’uso della parola “mutante” nel contesto fantascientifico era abbastanza raro, prima che diventasse un neologismo per dare una classificazione dal suono misterioso agli strambi personaggi delle weird tales degli anni ’50. Il primo utilizzo conosciuto fu su Amazing Detective Cases #11 del marzo 1952, ma il suo uso prima degli X-Men comunque fu sempre abbastanza saltuario.

La prima formazione
La prima storica formazione era composta da Ciclope, l’Uomo Ghiaccio, Angelo, e Bestia, a cui nel primo numero si aggiunse Jean Grey (ribattezzata Marvel Girl, nome di battaglia col tempo caduto in disuso), formando così il secondo super-gruppo di adolescenti della storia della Marvel.

Nato sulla scia della Cosa e Hulk, Ciclope era il membro che più di tutti rappresentava l’archetipo dell’eroe Marvel, fisicamente impossibilitato a vivere una vita normale a causa dei suoi poteri, quasi fosse un handicap, e costantemente terrorizzato dalla potenza incontrollabile dei suoi raggi ottici. Nella sua prima versione, oltre a chiamarsi “Slim Summers” (il nome diverrà “Scott” già dal secondo numero), Ciclope era più timido e impacciato di quanto sarebbe diventato in seguito, ma estremamente protettivo verso i suoi compagni e già dotato di una leadership naturale. Oltre a Ciclope, il membro più tormentato dalla sua mutazione era indubbiamente Bestia, che Lee infatti definì il suo X-Men preferito.

Nonostante le sue invasive ali, Angelo era l’esatto opposto del suo nome di battaglia: era la testa calda del gruppo, ricco di famiglia, avventato, esuberante, e pronto a provarci con qualsiasi donna respirasse. Era praticamente la Torcia Umana degli X-Men, anche se la vera e intenzionale “copia” della Torcia – come ammesso da Lee stesso, che per differenziarlo gli diede dei poteri contrapposti – fu l’Uomo Ghiaccio (inizialmente dotato di un aspetto leggermente diverso, più simile a un pupazzo di neve che a un blocco di ghiaccio umano), che come Johnny Storm era il membro più giovane e infantile del gruppo.

Jean Grey invece era poco più che la quota rosa del gruppo, come la Ragazza Invisibile, Wasp, o qualsiasi personaggio femminile di sessant’anni fa, più utile a dare ai personaggi una love story che altro. Jean troverà più spazio con Chris Claremont dagli anni ‘70, passando dall’essere il membro più inoffensivo del gruppo a quello più potente, grazie anche alla creazione di Fenice.

Per Charles Xavier, invece, l’unica ispirazione conosciuta è quella grafica: la pelata negli anni ‘60 era piuttosto rara, dunque l’ispirazione non poté che venire dall’uomo che più di tutti la popolarizzò, ossia Yul Brynner, il primo a legittimare l’assenza di capelli nel mondo dello spettacolo. Molti sostengono che Lee per il Professor X abbia preso spunto anche dai Doom Patrol, gruppo di supereroi che la DC Comics creò tre mesi prima degli X-Men, e che aveva come leader Niles Caulder… un uomo in sedia a rotelle. Nonostante la maggior parte degli storici del fumetto la ritenga una coincidenza non è da escludere che fosse un “furto” voluto, ma c’è poco di cui scandalizzarsi, visto che ai tempi – ma anche negli anni successivi – che Marvel e DC si scimmiottassero a vicenda era praticamente la norma. Uno degli elementi che caratterizzeranno Xavier inizialmente furono i suoi sentimenti per Jean, una sottotrama che sarà subito abbandonata e che in futuro tutti gli autori ignoreranno per evitare controversie.

Kirby disegnò uniformi uguali per tutti gli X-Men – che inizieranno a indossare costumi personalizzati solo dal n°39, quando però non ci sarà più lui ai disegni – ed ebbe gran parte del merito nel delineare le caratteristiche e le singole personalità dei cinque, più di quanto facesse Lee (che nel consolidato “metodo Marvel” si occupava del plot e dei dialoghi, lasciando lo svolgimento ai disegnatori) grazie alla raffigurazione dei loro passatempi: Bestia era sempre mostrato a leggere o scrivere formule matematiche per risaltarne l’intelletto, l’Uomo Ghiaccio a leggere fumetti o mangiare schifezze per sottolineare la sua immaturità, e così via.

La prima cosa che può saltare all’occhio è che nonostante gli X-Men (e più in generale i mutanti) siano da sempre una metafora sulle minoranze perseguitate, i primi membri fossero comunque tutti caucasici. Niente di strano: avere un cast multietnico nel 1963 sarebbe stato decisamente troppo avanti, talmente avanti da essere inconcepibile, qualcosa che difficilmente un editore del tempo avrebbe acconsentito (come era nell’effettivo, dato che nell’universo Marvel non esistevano ancora personaggi neri). Il fatto che in un fumetto dell’epoca si trattasse il tema comunque non era affatto scontato visto che, oltre ad essere un unicum nel panorama fumettistico di quegli anni, quando gli X-Men vengono creati in America le leggi Jim Crow – l’insieme di leggi che determinava la divisione tra bianchi e neri risalenti al 1877 – erano ancora in vigore.

Più il mondo progredirà, più la rappresentazione di minoranze negli X-Men si allargherà: già nel 1975, nella sua seconda incarnazione il gruppo avrà una formazione più multietnica, mentre nel 1990 proprio nel mondo mutante farà coming out il primo personaggio apertamente gay della Marvel, Northstar, diventando anche protagonista del primo matrimonio omosessuale della storia della Casa delle Idee nel 2012, otto anni dopo la rivoluzionaria decisione del Massachusetts di diventare il primo Stato americano ad approvare i matrimoni omosessuali.
Quello che si può notare leggendo i primi numeri è che gli X-Men furono sì rappresentati da subito come degli incompresi, ma in un modo non troppo diverso da Spider-Man o Hulk, senza essere volutamente la metafora sul razzismo che conosciamo oggi. La tematica del razzismo per negli X-Men fu più che altro una naturale conseguenza, una logica evoluzione del plot dei “nati diversi” già dopo pochi numeri. Ed era anche inevitabile, per quella che era la realtà dei tempi.

I “mutanti” di una volta.
Per capire il clima d’odio in cui sessant’anni fa nacquero gli X-Men, e perché fu inevitabile la loro evoluzione a metafora sull’intolleranza basterebbe guardare alla storia e la condizione di vita negli Stati Uniti degli aforamericani, ispanici, e asiatici dei tempi, così come della comunità LGBT. Anche se oggi gli afroamericani non sono più la minoranza più diffusa degli Stati Uniti (13% della popolazione, contro il 18% formato dagli ispanici) è innegabile che storicamente restino il riferimento principale per tracciare il rapporto tra gli Stati Uniti e i non-bianchi. Ma per rendersi conto della gravità dell’intolleranza dei tempi non basterebbe neanche dare un’occhiata ai freddi numeri degli episodi razzisti passati, anche perché sarebbe impossibile trarne un numero preciso, dal momento che ai tempi degli X-Men negli Stati Uniti il resto d’odio neanche esisteva.

La prima legge a tutela di una minoranza negli Stati Uniti risale al 1875, ben dodici anni dopo la fine dello schiavismo, quando il “Civil Rights Act” sancì che qualsiasi atto razzista poteva essere punito con una multa o con la galera, prima che sette anni dopo la legge venisse poi dichiarata incostituzionale in quanto “il Congresso non può regolare la condotta dell’individuo“. Per avere un’altra legge bisognerà aspettare il 1964, ben ottantanove anni dopo la fine dello schiavismo.
Paradossalmente la fine dello schiavismo mise gli afroamericani ancora più in pericolo, perché non essendo ormai più di proprietà di qualche ricco signore bianco, gli si poteva fare di tutto senza conseguenze. La Tuskegee University (una delle più prestigiose università afroamericane) stima che tra il 1883 e il 1959 ci siano state almeno 4733 vittime per linciaggio, un numero che diventa ancora più alto se si espande il campione a messicani, cinesi e nativi americani.

Ma i numeri più che contati vanno pesati: il linciaggio, infatti, non era un “semplice” omicidio, ma una vera e propria celebrazione di sadismo e inimmaginabile crudeltà, una festa che la popolazione amava immortalare con tante foto ricordo da far vedere agli amici e spedire come cartoline. Le vittime non venivano “solo” uccise ma seviziate, impiccate sui fili del telefono, bruciate vive, o addirittura legate ad una macchina e trainate per le strade della città. Uno dei casi più cruenti ed esplicativi avvenne nel 1916 a Waco (in Texas) ai danni di Jesse Washington, un ragazzo nero a cui vennero tagliati genitali e dita di mani e piedi, per poi essere sospeso sopra un falò, venendo alzato e abbassato continuamente per due ore finché, una volta carbonizzato, i suoi pezzi furono trainati per la città e poi venduti come souvenir. Al linciaggio parteciparono con gioia più di 10.000 persone, tra cui persino il sindaco e il capo della polizia.

Si tende spesso a pensare che i linciaggi fossero prerogativa del Ku Klux Klan, ma il KKK era “solo” un gruppo molto organizzato e numeroso (nel 1924 poteva vantare ben 6 milioni di membri), mentre i principi razzisti vivevano intrinsecamente in ogni americano. Basta vedere le foto ricordo che venivano scattate ai linciaggi dei tempi: niente cappucci bianchi a punta e nessuna croce bruciata, ma uomini e donne a volto scoperto, parecchi bambini, e tanti sorrisi, anche di poliziotti e istituzioni.

Col tempo i linciaggi diminuirono, ma il razzismo divenne più subdolo, portando i neri stessi a disprezzarsi e a tentare di “imitare” i bianchi per sentirsi migliori (come nella stiratura dei capelli naturalmente ricci, un gesto che una volta voleva dire ”rinnegare” consapevolmente la propria etnia) non facendo comunque mancare episodi celebri come quelli in cui vennero coinvolti Claudette Colvin, Rosa Parks, Ruby Bridges, o George Stinney, il ragazzino afroamericano che nel 1944, a soli 14 anni, venne giustiziato sulla sedia elettrica dopo un processo durato (letteralmente) 10 minuti. I media stessi non conoscevano sensibilizzazione: gli unici film a parlare degli afroamericani erano i cosiddetti race movie, una blaxploitation ante-litteram esistente dai tempi del cinema muto, che affrontava argomenti anche piuttosto coraggiosi per i tempi, come The Homesteader del 1919 -che fu il primo film americano a parlare di amore interraziale- o Within Our Gates del 1920, che trattava proprio dei linciaggi.

Al contrario della blaxploitation degli anni ‘70 però, i race movie erano film girati da registi afroamericani, prodotti fuori dal circuito hollywoodiano, e proiettati esclusivamente in cinema per neri (motivo per cui oggi se ne sono salvati pochissimi). Hollywood, infatti, non si interessò agli afroamericani e alla loro condizione fino alla seconda metà degli anni ‘50, quando finalmente una certa sensibilizzazione arrivò anche nel “cinema bianco” con opere ben più mediatiche, aiutando a far riflettere chi solitamente il problema neanche se lo poneva: film come L’odio Esplode a Dallas (diretto da Roger Corman e con protagonista il futuro capitano Kirk, William Shatner), il celebre Il Buio Oltre la Siepe, La Scuola Dell’Odio (tutti e tre del 1962), o Nothing But a Mane Black Like Me del 1964, film inedito in Italia dalla trama decisamente particolare, in cui un giornalista bianco si trucca da nero per “sperimentare” la vita di un afroamericano nel Sud degli Stati Uniti. Una trama che potrebbe sembrare grottesca o inverosimile, ma tratta dalla vera esperienza del giornalista John Howard Griffith, che scrisse anche un libro sul suo esperimento.

Ed è in questo periodo, il 2 luglio 1963, che debuttano gli X-Men, e non un anno qualsiasi: il 1963 è l’anno in cui avviene la celebre marcia su Washington, si inizia a discutere dell’abolizione delle leggi Jim Crow (che troverà compimento l’anno dopo), la Marvel crea il suo primo personaggio nero senza stereotipi macchiettistici (Gaby Jones, storico compare di Nick Fury), il Times elegge Martin Luther King “L’uomo dell’anno“, e al cinema esce I Gigli del Campo, il film per cui Sidney Poitier diventerà il primo afroamericano a vincere l’Oscar come attore protagonista.

I primi villain
Il ciclo di Lee e Kirby fu breve, durò appena 19 numeri, prima di lasciare il testimone a Roy Thomas ai testi e Werner Roth ai disegni. Rispetto ad altre riviste Marvel, le primissime storie degli X-Men non brillavano particolarmente, proponendo quasi sempre lo stesso schema con un plot abbastanza basico e un po’ ripetitivo: le storie iniziavano sempre con gli X-Men impegnati nelle prima 3-4 pagine ad esercitarsi nella Stanza del Pericolo, poi il professor Xavier individuava con Cerebro un nuovo potentissimo mutante che gli X-Men dovevano raggiungere prima che ci arrivasse Magneto, le due fazioni se lo contendevano, e alla fine il mutante in questione decideva di andarsene per la sua strada non unendosi a nessuno.

Gli X-Men originali si ritrovavano ad affrontare quasi sempre Magneto e la sua Confraternita dei Mutanti Malvagi (debuttanti nel n°4), con il “malvagi” che fu poi abbandonato in quanto piuttosto contraddittorio (dopotutto, nessuno che crede di essere nella ragione si auto-definirebbe malvagio), formata da Mastermind, Toad e i gemelli Quicksilver e Scarlet Witch, inconsapevoli figli di Magneto (la loro parentela verrà svelata solo nel 1979). Senza Magneto, fu un continuo alternarsi tra villain non proprio passati alla storia – come lo Svanitore, Unus, il Mimo, o lo Straniero – e protagonisti di riviste più rinomate, come Namor su X-Men n°6 (che tramite un retcon Stan Lee stabilirà essere il primo mutante della storia della Marvel) o il n°9, col primo storico scontro tra X-Men e Vendicatori (una sfida che negli anni diverrà un classico di casa Marvel, un pò come quelle tra la Cosa e Hulk).

Sempre nel n°9 iniziò ad essere pian piano svelato il passato di Xavier (in particolare di come avesse perso l’uso delle gambe a causa di Lucifero, villain debuttante nello stesso numero), l’unico della squadra di cui Lee e Kirby rilasceranno dettagli biografici.
Nella seconda parte del breve ciclo la qualità della storie migliora decisamente, anche grazie all’introduzione di nuovi personaggi oltre al solito Magneto: come nel n°10, dove Stan Lee riesumerà Ka-Zar (creato nel 1936 per i pulp magazine dell’epoca, e poi acquistato dalla Marvel nel 1939) e la tua tigre dai denti a sciabola Zabu, introducendo così quello che insieme alla Latveria e il Wakanda è storicamente il più celebre dei luoghi immaginari della Marvel: la Terra Selvaggia, una landa situata vicino all’Antartide ancora ferma al paleolitico con dinosauri e altri animali preistorici, in quello che fino ad allora fu tra i migliori esempi – insieme al suo lavoro su Thor – del fenomenale worldbuilding di Jack Kirby, prima di trovare il suo apice l’anno dopo con la creazione di Attilan del Wakanda su I Fantastici 4.

Nel n°11, la Confraternita si sfalderà: Blob si metterà in proprio, Quicksilver e Scarlet Witch si uniranno ai Vendicatori in cerca di redenzione, mentre lo Straniero trasformerà Mastermind in pietra e spedirà Magneto e Toad nello spazio. Orfani della Confraternita, Lee e Kirby nel n°12 doteranno i ragazzi di Xavier di uno dei loro avversari più iconici, il Fenomeno, in quello che è forse il singolo miglior numero di tutto il ciclo, almeno in termini di suspense. La storia si apre con Xavier che, percependo l’arrivo del Fenomeno, ordina agli X-Men di costruire trappole di ogni tipo intorno alla scuola. Ma il Fenomeno non verrà mostrato fino all’ultima vignetta: l’unica cosa che il lettore e gli X-Men stessi vedono per tutto il numero è una silhouette nera fuori dalla scuola fare a pezzi tutto, superando senza difficoltà ogni trappola, mentre Xavier spiega ai suoi ragazzi chi sta arrivando tramite una serie di flashback, rivelando infine che il Fenomeno non è altro che il suo fratellastro.

Come detto, gli X-Men affrontavano perlopiù supercattivi piuttosto che il razzismo e l’intolleranza, ma le cose cambiarono presto. Il primo esplicito richiamo al razzismo arrivò nel 1965, su X-Men n°14, l’albo del debutto delle Sentinelle, che daranno un’identità più forte alla serie. Ed è da qui che la metafora sull’intolleranza oggi considerata centrale nel topos degli X-Men prese davvero forma.

Il vero spartiacque degli X-Men
La saga delle Sentinelle (durata fino al n°16, la più duratura di tutto il ciclo di Lee e Kirby) vede protagonista Bolivar Trask, un antropologo convinto che i mutanti siano una minaccia che porterà l’homo sapiens alla schiavitù e all’estinzione, una teoria che gli americani sembrano abbracciare a pieno, talmente estrema da costringere il professor Xavier ad esporsi per la prima volta pubblicamente in difesa dei mutanti.

Ma Trask non si è limitato alla semplice propaganda: ha progettato infatti le Sentinelle, una linea di robot pensati per contrastare i mutanti ostili. Le Sentinelle originali di Kirby erano poco più grandi di un essere umano, abbastanza diverse dai colossali robot che diventeranno nel 1975 con i disegni di Dave Cockrum, ma la loro intelligenza sarà così sviluppata da portarle a ribellarsi per sottomettere l’umanità, finché Trask, inorridito dalla sua creazione e resosi conto di aver creato esattamente quello che credeva di combattere – ossia una presunta razza superiore pronta a sterminarne un’altra – si redimerà distruggendo Master Mold (una Sentinella gigante programmata per creare altre Sentinelle) e tutti i robot da lui creati, morendo con loro.

La storia divenne una tappa fondamentale per la mitologia degli X-Men e per la loro metafora, e fu anche piuttosto originale per l’epoca: l’idea di un’intelligenza artificiale che si ribella all’uomo oggi è più che assodata, ma nel 1965 era una tematica ancora relativamente poco esplorata dalla fantascienza americana più in voga dei tempi, seppur non proprio inedita; basti pensare a Frankenstein(a tutti gli effetti un precursore del concetto di androide), risalente al 1818, o R.U.R. (l’opera teatrale che che introdusse per la prima volta il termine “robot” e che creò il concetto di rivolta delle macchine) risalente al 1920, senza contare che Isaac Asimov delineò le leggi della robotica già alla fine degli anni ‘30.

Dopo le Sentinelle, debuttarono il Mimo nel n°16 (un mutante con l’abilità di “imitare” i poteri dei mutanti nelle vicinanze, inclusi quelli di tutti e 5 gli X-Men in contemporanea) e tornò Magneto nel n°17, finché il ciclo di Lee e Kirby non si concluse nel n°19. Con Lee e Kirby, Magneto era un personaggio abbastanza misterioso: non si toglieva mai il suo elmetto, della sua storia e del suo vero nome non si sapeva nulla (il suo passato nei campi di concentramento nazisti fu aggiunto solo nel 1981), e non aveva quei contorni da antieroe che lo caratterizzeranno più avanti.
Si è molto discusso di recente di un possibile arrivo di un Magneto afroamericano nel Marvel Cinematic Universe: qualcuno ha storto il naso invocando il politicamente corretto, altri hanno accolto con favore i rumor; quel che è certo è che la mossa avrebbe perfettamente senso (e non solo perché oggi un ebreo deportato nei campi nazisti dovrebbe avere intorno ai 90 anni) e troverebbe un contesto perfetto, soprattutto per i rinomati paragoni tra Charles Xavier e Magneto e le figure di Martin Luther King e Malcolm X, così insistente negli ultimi anni da spingere a chiedersi quanto ci sia di vero dietro.

Martin Luther King e Malcolm X hanno ispirato Charles Xavier e Magneto?
Partiamo precisando che nel 1963 i paralleli tra Xavier/Magneto e Martin Luther King/Malcolm X non furono affatto intenzionali, come confermato dallo stesso Chris Claremont, il principale artefice della rinascita degli X-Men nel decennio successivo (“Negli anni ‘70 eravamo ancora troppo vicini alle loro morti, sarebbe stato indelicato. Con gli anni ‘60 sempre più lontani però prese praticamente forma da solo”). Tuttavia, in seguito le analogie vennero così naturali da diventare per gli scrittori stessi internazionali e ricercate, come confermò sempre Claremont, che comunque ne prese sempre le distanze ( “Il parallelo tra Magneto e Malcolm X era una lettura più che legittima. Ma da bianco sentivo fosse un pò presuntuoso per me fare quell’analogia”).

Anche se FBI e CIA lo tenevano d’occhio già da anni, la popolazione americana conobbe Malcolm X – e di conseguenza la Nation of Islam e il suo leader Elijah Muhammad – per la prima volta nel 1959 grazie a The Hate That Hate Produced, un documentario televisivo sul nazionalismo nero che shockò l’America: da un lato i neri stessi, stupiti che esistesse un’alternativa convincente al più famoso e moderato Martin Luther King, dall’altro i bianchi, quasi increduli nella loro ingenuità che la popolazione nera potesse avercela così tanto con loro, o che potesse essere addirittura contraria all’intregazione (come disse Malcolm X nella sua autobiografia, “L’uomo bianco ama sé stesso a tal punto da restare allibito nello scoprire che le sue vittime non condividono la vanitosa opinione che ha di sé”, aggiungendo anche che “La parola ‘integrazione’ rende milioni di bianchi confusi e moribondi perché credono, sbagliando, che le masse dei neri vogliano vivere mescolate a loro. Pochi bianchi si rendono conto che a molti neri non piace stare insieme a loro più di quanto non sia necessario. Questa immagine dell’integrazione ha convinto milioni di bianchi sciocchi ed esaltati che i ne*ri vogliano addirittura stare nello stesso letto con loro. Non si può neppure cercare di convincere il bianco medio che il maggior desiderio di un ne*ro non sia far l’amore con una donna bianca”).
Rispetto al più “rassicurante” Martin Luther King, che trovava favori anche tra i bianchi, Malcolm X era contrario all’integrazione, rifiutava ogni pietismo, e attaccava frontalmente l’intellighenzia bianca e white saviors come nessuno aveva mai avuto il coraggio di fare, motivo per cui al contrario di King fece breccia anche nei ghetti neri, e venne subito accusato dalla stampa bianca di essere “una minaccia ai buoni rapporti tra le razze” e da molti afroamericani come “un messaggero che dà un’immagine controproducente del nero”; un uomo talmente poco disposto a compromessi da indispettire a un certo punto persino il suo stesso leader Elijah Muhammad nel 1963, quando intervistato riguardo l’assassinio di John F. Kennedy, senza alcuna ipocrisia Malcolm X rispose con un secco “Chickens coming home to roost” (“Le galline tornano al pollaio”, un detto non esistente in italiano, grossomodo il nostro “si raccoglie quel che si semina”), venendo per questo sospeso dalla Nation of Islam.

In parte, Magneto e Malcolm X si possono definire accostabili: entrambi condividono l’idea che una rivoluzione non possa compiersi con dei compromessi o senza un forte rovesciamento (“La rivoluzione è sanguinosa, ostile, non conosce compromessi: rovescia e distrugge tutto quello che incontra sul suo cammino. Chi ha mai sentito parlare di una rivoluzione in cui ci si prende tutti per mano cantando ‘We Shall Overcome’?”), ed entrambi sono contrari all’integrazione, ma non possono assolutamente definirsi paragonabili, perché oltre all’avere obiettivi piuttosto diversi, se preso troppo alla lettera il paragone rischierebbe di dare un’immagine distorta e banalizzante del già fin troppo semplificato Malcolm X, un personaggio spesso frainteso e mercificato (come nel grottesco tributo di Beyoncé al Super Bowl del 2016), ma molto più sfumato, arguto, e interessante di quanto la narrativa bianca lo dipinga, “colpevole” solo di essere un personaggio poco accomodante, che difficilmente si rispecchierebbe nei moderni e omologanti Black Lives Matter di turno, talmente libero da addomesticazioni da risultare ancora oggi scomodo e per questo volutamente dimenticato dalla sinistra contemporanea tanto quanto – ovviamente – dalla destra. Nulla che lo stesso Malcolm X non avesse già previsto (“Da morto l’uomo bianco mi userà come mi ha usato da vivo, come un comodo simbolo di odio“).

Se Magneto è convinto che la convivenza tra umani e mutanti sia così insostenibile da rendere inevitabile una guerra dove alla fine i mutanti avrebbero dominato il mondo, Malcolm X e la Nation of Islam non avevano intenzione di scatenare una guerra: la loro visione non prevedeva né il conflitto né l’integrazione, ma di abbandonare la società bianca per tornare in Africa e riappropriarsi della terra e la cultura da cui erano stati strappati. Se Magneto era per la soggiogazione, Malcolm X era per la separazione (“L’uomo bianco ha più paura della separazione che dell’integrazione. La segregazione vi tiene a distanza, ma non troppo lontano da esser fuori della sua giurisdizione, mentre se siete separati non avete più niente a che fare con lui. L’uomo bianco è disposto a integrarvi più di quanto non sia disposto a consentirvi di separarvi da lui“).

Oggi sappiamo che Charles Xavier e Magneto tanti anni prima furono amici fraterni nella battaglia civile per i diritti mutanti prima di prendere strade diverse, ma nel ciclo di Lee e Kirby non c’era alcun riferimento alla vecchia amicizia tra i due. Martin Luther King e Malcolm X invece non legarono mai per ovvi conflitti ideologici. Anzi, Malcolm X non ci andò mai leggero verso King e tutti i neri che porgevano l’altra guancia all’uomo bianco, etichettando manifestazioni come la celebre marcia su Washington come “una buffonata fatta da bianchi davanti alla statua di un Presidente morto cento anni fa e al quale, quando era vivo, neanche piacevamo” (dei 250.000 partecipanti alla marcia infatti, ben 60.000 erano bianchi) e definendo i neri che parteciparono come degli “zio Tom” (ossia un nero asservito ai bianchi, espressione proveniente dal romanzo La Capanna dello zio Tom del 1853) e dei “ne*ri da cortile“, due espressioni dal significato simile.

Ai tempi dello schiavismo, infatti, esistevano due tipi di servi: quello “da campo”, ossia lo schiavo che conosciamo vestito di stracci, che veniva maltrattato continuamente, e viveva in una baracca fuori dalla casa del padrone, e poi il servo “da cortile”, una figura meno conosciuta ma di cui ultimamente anche Hollywood sembra essersi ricordata (vedasi Samuel L. Jackson in Django Unchained): ben vestito, che viveva in casa col suo padrone, talmente “privilegiato” da mangiare gli avanzi dei padroni, portato ad amare la sua condizione di schiavo, convinto che tutto sommato essere schiavo di un bianco non era poi così malaccio, e che il suo padrone – che amava più di se stesso – in fondo fosse un benefattore.

Una divisione spesso dimenticata – ricordata da Malcolm X all’America in un celebre discorso tenuto a Detroit nel 1963 – che portava i neri stessi a odiarsi tra loro anche con la fine dello schiavismo: il nero borghese era infatti visto come un “aspirante bianco”, che disprezzava la sua stessa cultura in modo non molto diverso dai bianchi borghesi, come Malcolm X sottolineò nella sua autobiografia (“Tanti dei cosiddetti membri della classe superiore ne*ra sono così occupati nel cercare di convincere l’uomo bianco che sono ‘diversi da quegli altri’ da non capire che confermano quanto bassa sia l’opinione che i bianchi hanno di tutti i ne*ri” e che “Si staccano dai loro fratelli poveri e reietti, dal loro odio per se stessi, che è poi la vera cosa da cui cercano di fuggire. Essi hanno più dei bianchi la mentalità bianca e sono più nemici della loro gente di quanto non lo sia lo stesso uomo bianco”). Se Martin Luther King cercava una convivenza pacifica tra bianchi e neri, Malcolm X aveva ancora più a cuore l’abbattimento della sudditanza psicologica nei confronti dei bianchi a partire dai piccoli gesti quotidiani, come la stiratura dei capelli, che i neri applicavano per somigliare di più ai bianchi.

I due si incontrarono in una sola occasione, il 26 marzo 1964, ma quello conosciuto da Martin Luther King era un altro Malcolm X: da poco uscito dalla Nation of Islam (e di conseguenza distaccato completamente da Elijah Muhammad), disposto a collaborare coi leader neri che in precedenza aveva criticato, e prossimo a compiere un viaggo che avrebbe cambiato l’ultimo anno della sua vita, un pellegrinaggio santo a La Mecca nella primavera del 1964, da cui tornò con un nuovo nome – El-Hajj Malik El-Shabazz – e una visione più aperta, come testimoniò in una lettera (e poi in un discorso alla nazione) appena tornato negli States:
“In passato ho condannato tutti i bianchi, ma non farò mai più questo errore. Adesso so che alcuni bianchi sono davvero sinceri, che alcuni sono davvero capaci di essere fraterni con un nero. Il vero Islam mi ha mostrato che una condanna di tutti i bianchi è tanto sbagliata quanto la condanna di tutti i neri da parte dei bianchi. Sì, mi sono convinto che alcuni americani bianchi vogliono sopprimere il feroce razzismo che sta per distruggere questo Paese. Da quando alla Mecca ho trovato la verità, ho accolto fra i miei più cari amici cristiani, ebrei, buddisti, indù, agnostici, e persino atei! Ho amici che si chiamano capitalisti, socialisti, e comunisti… alcuni sono moderati, conservatori, estremisti, alcuni sono addirittura degli “Zio Tom”! Oggi i miei amici sono neri, marroni, rossi, gialli e bianchi”.

Magneto stesso con gli anni iniziò ad essere rappresentato sempre meno come il cattivo, quasi un anti-eroe, e la sua causa più irreprensibile, meno orientata alla soggezione dell’homo sapiens e più alla “semplice” separazione dagli umani. I paralleli vennero rimarcati anche da Bryan Singer nei suoi film sugli X-Men: a partire dal primo, dove il Magneto di Ian McKellen prometteva di portare avanti la sua lotta “Con ogni mezzo necessario” (“By any means necessary“, motto popolarizzato proprio da Malcolm X nel 1965), così come nel sequel, in un significativo scambio di battute tra Magneto e Pyro, uno studente dell’istituto Xavier, il cui vero nome è John Allerdyce. In questa scena Magneto chiede a Pyro il suo nome, il quale risponde col suo nome di battesimo, cioè John. Ma Magneto lo ammonisce, rispondendogli “Qual è il tuo vero nome?”. A quel punto John, sollevato che qualcuno finalmente gli chieda il nome in cui davvero si identifica, risponde col suo nomignolo di battaglia… “Pyro”.
Magneto e la sua Confraternita si dotano infatti di nomi di battaglia per distaccarsi dall’identità che gli ha assegnato l’umanità, quella stessa umanità che vorrebbe vederli morti, così come Malcolm Little si diede il nome “Malcolm X” nel 1950 per ripudiare il suo cognome “da bianco”: molti cognomi afroamericani sono infatti inglesi perché ai tempi dello schiavismo era consuetudine che uno schiavo liberato “ereditasse” il cognome del padrone, perdendo per sempre il proprio.
Una solida base
Gli X-Men conosceranno giorni migliori: il ciclo di Lee e Kirby fu breve e non particolarmente intrigante rispetto a tante altre riviste Marvel di cui si occupavano ai tempi, tanto che la Marvel tentò di risollevare la testata in più modi, dal cambio dei costumi all’aggiunta di nuovi membri del gruppo (Lorna Dane e Havoc, il fratello di Ciclope, arrivati rispettivamente nel n°49 e 54), senza grande successo, visto che la rivista chiuderà nel 1968 col n°66. Quasi tutti i personaggi e le dinamiche che conosciamo dei mutanti (come Wolverine, Tempesta, Colosso, Apocalisse, gli Shi’ar, Giorni di un Futuro Passato, la saga di Fenice), così come l’evoluzione del personaggio di Magneto, arriveranno col reboot che la serie subirà nel 1975 e la presa al comando di Chris Claremont, che porterà gli X-Men a diventare il fumetto Marvel più popolare e amato degli anni ’80 e ’90.
